Altolà, gente, se state guardando me io non c’entro. Mark Zuckerberg pensava forse che la tesi secondo la quale il 45° presidente Usa è stato eletto grazie ai social network sarebbe passata in poche ore, invece alla fine ha dovuto dire la sua. Forse perché quelle migliaia di giovani nelle strade che protestano contro l’elezione di Donald Trump sono anche i suoi clienti. Ma ha ragione: Facebook non c’entra un bel nulla con queste elezioni.
Zuck Ne ha parlato durante il suo intervento ad una conferenza di TechCrunch, dove ha negato le ragioni tecniche del laissez-faire sul social network rispetto alla marea montante di falsa propaganda, spiegato l’effetto parziale della cosiddetta “bolla di rinforzo” e tagliando ogni discussione a proposito delle responsabilità del social network:
Personalmente, credo che l’idea che le notizie false su Facebook, e si tratta di una piccola quantità di contenuto, abbiano influenzato l’elezione è un’idea piuttosto folle.
Zuck denies Facebook News Feed bubble impacted the election https://t.co/4cQP8HZ1kv by @JohnMannes
— TechCrunch (@TechCrunch) November 11, 2016
Mark Zuckerberg mostra di avere un’idea piuttosto chiara del tema politico (contrariamente ai primi anni della sua dimensione pubblica) connesso alla Rete, ha citato il caso dei fake creati in Macedonia, ma ritiene che in buona sostanza le persone prendano decisioni sulla base della loro esperienza vissuta, e che «non si sbaglia quando ci si fida della capacità delle persone di decidere a proposito delle cose che a loro importano». Sull’esito delle elezioni, il parere di Zuck è praticamente scontato, dato che tutti sanno come non sopporti proprio Trump. Tuttavia, ha scelto, secondo una visione ottimista, di raccontarla dal punto di vista della figlia, in un post che ha molto impressionato.
Perché i social non decidono le elezioni
Zuckerberg non ha speso molte parole a proposito delle elezioni e di Trump, invece molti media l’hanno fatto, e alcuni si sono lasciati andare a una interpretazione che è un grosso abbaglio: i social hanno tirato la volata al peggior presidente della storia degli Stati Uniti d’America. Su quale base dicono questo? Osservando i flame di contenuti, di potenza pazzesca, durante il voto, anche prima. Confondere però il peso dei troll e del clickbaiting con quello delle scelte politiche è rischioso e fuorviante. Innanzitutto, queste elezioni sono state perse dai democratici e non vinte dai repubblicani. Se Hillary Clinton avesse convinto quei sei milioni di elettori democratici a tornare alle urne come avevano fatto con Obama, Trump non avrebbe avuto alcuna speranza.
Inoltre, queste elezioni passeranno alla storia per il clamoroso fallimento dei media e dei sondaggi. Nessuno ci ha capito nulla, neppure la portentosa macchina di analisi dei big data messa in piedi nel 2012 dallo staff di Obama. La diserzione al voto di alcuni giovani ha reso determinante il voto del Midwest e in generale della provincia continentale americana, composta da adulti, spesso maschi, bianchi, over 50, di media-bassa istruzione. Tutt’altro che l’utente tipico di Twitter o di Facebook, bensì consumatore di televisione spazzatura e, certamente, alle prese con una percezione di crisi, di scardinamento di valori che ha determinato la ricerca di riscontri facili alle proprie convinzioni conservatrici e tradizionalmente isolazioniste (tendenza culturale fortissima e antichissima nei repubblicani americani, nessuna novità).
Se i giovani che hanno votato l’hanno fatto comunque per Hillary, i big data non ci hanno capito nulla e l’elettore repubblicano che stavolta ha fatto la differenza è di bassa istruzione e probabilmente analfabeta informatico, è assai improbabile, anzi impossibile che Facebook abbia responsabilità. Si tratta di società, di economia. Questo non vuol dire che i media non c’entrino, anzi: i media tradizionali hanno mostrato tutto il loro disinteresse per quei territori, lasciati a margine della ripresa economica e comunque fuori dalla narrazione obamiana. Molti sociologi hanno fatto notare come è del tutto normale e prevedibile che l’operaio dell’America profonda si senta sperduto in mondo dove la fabbrica non c’è, il partito non c’è, i media si disinteressano di lui: lasciato solo col suo smartphone, le sue ricerche online, nella spasmodica ansia di trovare spiegazioni che lo confortino nella sua opinione di base, cioè che è vittima di un complotto.
Insomma, questa storia non parla di come i social hanno influenzato il voto, ma di come lo spaesamento produca scelte irrazionali e i commentatori diano sempre in pasto la Rete alle giustificazioni di ciò che altrimenti non si capisce. Ma se il cittadino che ha pochi strumenti culturali è soggetto alla misinformation, quello fin troppo informato è soggetto alla deriva delle interpretazioni. Uno scollamento ormai storico, irreversibile, tra media e opinione pubblica dove si sono infilati interi universi sociali paralleli e l’incapacità di tutti di conoscerli. Facebook ha un ruolo, vero, e probabilmente deve lavorare per depurare l’ambiente dalle strumentalizzazioni del suo modello di business basato sui click. Però se una certa propaganda attecchisce tocca alla politica e alla sociologia spiegare perché. Non a Zuckerberg.