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Dopo la decisione della Consulta sul fine vita. La Cei: “Perso il lume della ragione”

Set 26, 2019

CITTA’ DEL VATICANO. “Non comprendo come si possa parlare di libertà, qui si creano i presupposti per una cultura della morte in cui la società perde il lume della ragione”. Il giorno dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale sul caso di Marco Cappato, il politico e attivista dell’associazione Luca Coscioni accusato – in base all’articolo 580 del codice penale – di avere aiutato a suicidarsi Fabiano Antoniani, più noto come dj Fabo, è il segretario generale della Cei, monsignor Stefano Russo, a dire la sua durante la conferenza stampa che conclude il Consiglio permanente dei vescovi italiani.

La Chiesa non concede aperture sul fine vita, e anzi esplicitamente Russo dice di chiedere per i medici l’obiezione di coscienza: “Il medico esiste per curare le vite, non per interromperle”. E ancora: “È chiaro che chiediamo per i medici l’obiezione di coscienza”.

Tuttavia, spiega Russo, la decisione della Consulta non crea “una frattura” tra la Conferenza episcopale italiana e le istituzioni italiane. “Noi”, precisa il monsignore, “siamo sempre aperti al dialogo “. E aggiunge: “Speriamo in paletti forti. Non ci può stare bene quanto deciso ieri ed è anomalo che una sentenza così forte sia arrivata prima di un passaggio parlamentare”.

Il fine vita ha tenuto banco a lungo durante i lavori di un Consiglio durato in tutto quattro giorni. Tanto che nel comunicato finale diramato oggi si spiega che “i vescovi hanno unito la loro voce a quella di tante associazioni laicali nell’esprimere la preoccupazione a fronte di scelte destinate a provocare profonde conseguenze sul piano culturale e sociale”. “Consapevoli di quanto il tema si presti a strumentalizzazioni ideologiche, si sono messi in ascolto delle paure che lacerano le persone davanti alla realtà di una malattia grave e della sofferenza”.

I vescovi “hanno riaffermato il rifiuto dell’accanimento terapeutico, riconoscendo che l’intervento medico non può prescindere da una valutazione delle ragionevoli speranze di guarigione e della giusta proporzionalità delle cure”. “Alla Chiesa sta a cuore la dignità della persona, per cui i pastori non si sono soffermati soltanto sulla negazione del diritto al suicidio, ma hanno rilanciato l’impegno a continuare e a rafforzare l’attenzione e la presenza nei confronti dei malati terminali e dei loro familiari. Tale prossimità, mentre contrasta la solitudine e l’abbandono, promuove una sensibilizzazione sul valore della vita come dono e responsabilità; cura l’educazione e la formazione di quanti operano in strutture sanitarie di ispirazione cristiana; rivendica la possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza, rispetto a chi chiedesse di essere aiutato a morire; sostiene il senso della professione medica, alla quale è affidato il compito di servire la vita”.

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