MILANO – Troppa politica e troppe scadenze elettorali – alcune con esiti burrascosi per i mercati, come la Brexit – hanno fermato la corsa delle fusioni globali, che veniva da due anni scoppiettanti. Così, anche se il numero delle integrazioni societarie è rimasto più o meno stabile (3.222 in Europa, in calo del 2%), il loro ammontare si è ridotto di un netto 18%, scendendo a 314,7 miliardi di euro. E’ il succo dell’edizione diffusa in Europa, Medio Oriente e Africa di Deal Drivers, che Mergermarket ha compilato basandosi sui dati di metà 2016. “La febbre globale delle fusioni si è raffreddata, dopo due anni frenetici – ha detto Paul Francis-Grey, vice direttore della pubblicazione – gli investitori si sono presi una piccola pausa per verificare la tenuta dei fondamentali economici nell’area, e le strategie di crescita, specie per quanto riguarda le fusioni transnazionali”.
Proprio a questo riguardo ci sono alcuni dei principali freni all’attività di concentrazione delle imprese, che in tempi sia crescita sia di crisi (ma con scarti e ritmi diversi) procede come una sorta di entropia globalizzante. Tra le flessioni più sensibili (-27% in fatto di volumi, -18% per numero di accordi) c’è quella delle operazioni dagli Usa, che nell’incertezza del referendum britannico e in vista delle presidenziali alla Casa Bianca in novembre hanno preferito alzare il piede dal pedale delle fusioni. Oltre a questo scenario ci sono le regole più severe nelle fusioni tra grandi corporation, anche su pressione della presidenza Obama, e l’inversione delle politiche monetarie della Fed, benché ancora molto lenta e incerta. Simile dinamica anche per i fondi di private equity, tra i protagonisti di questa tipologia operativa e che rispetto a fine giugno 2015 hanno ridotto l’attività di integrazioni che li vede protagonisti di un terzo, per un valore di 38,6 miliardi.
Tra le 20 maggiori operazioni svetta l’acquisizione di Syngenta da parte di un colosso cinese, per 42 miliardi, a febbraio (e tuttora in corso di autorizzazione), seguita dalla fusione Shire-Baxalta nel farmaceutico anglosassone per 32 miliardi, dall’acquisto di Tyco da parte di Johnson nella chimica (15 miliardi), poi la fusione tra le due Borse di Francoforte e Londra-Milano, del valore di 13 miliardi, e ancora due fusioni parmaceutiche da una decina di miliardi l’una (Boehringer Ingerheim-Merial e Mylan-Meda).
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Una delle tendenze rilevate da Mergermarket, consulente indipendente di dati e strategie di integrazione aziendale, è la prospettiva ripartenza delle fusioni nei paesi del Golfo, più sensibili al calo dei prezzi del petrolio. L’esigenza di concentrazioni per tagliare i costi e cercare sinergie di ricavo si farà sentire, come è recentemente avvenuto in Arabia Saudita dove il governo si è mosso per eliminare alcuni dei vincoli presenti sugli investimenti di capitali stranieri nel paese.
Quanto all’Europa, lo studio prevede che i prossimi annunci riguarderanno principalmente le aziende di taglia intermedia, e concentrate nell’area Centro Orientale del continente, dove i settori telefonia e media, distribuzione, industria, auto e chimica offrono un’ampia gamma di possibilità. Mergermarket ha individuato 2.724 operazioni di possibile fusione che potrebbero concretizzarsi nel prossimo semestre; di queste, 512 operazioni realizzate nel primo semestre. Di questi, ben 75 (il numero più alto per singolo paese) sono avvenuti in Italia, paese dove “i compratori cercano ancora di catturare il forte potenziale di esportazione dei marchi dell’agroalimentare, delle bevande e della moda”. Altri settori trainanti sono l’industria chimica (454 fusioni, e qui domina la Germania che ne ha ospitate 103) e la triade Tmt (telecom, media e tecnologie) con 446 fusioni, di cui 84 in Gran Bretagna e Irlanda.
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