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Petroliere in fiamme nel golfo dell’Oman Washington: è stato un attacco iraniano – La Stampa

Giu 14, 2019

Due petroliere in fiamme nel golfo dell’Oman, sulla rotta dove passa un quinto di tutto il greggio consumato nel mondo. Uno scenario da incubo che non si è trasformato in una strage di marinai soltanto perché le navi sono state colpite al di sopra della linea di galleggiamento e gli equipaggi sono stati tratti in salvo da navi iraniane e statunitensi.

L’attacco ha fatto impazzire i prezzi del petrolio, salito del 4 per cento in poche ore, e portato alle stelle le tensioni fra l’Iran e gli Stati Uniti. Il tutto mentre il premier giapponese Shinzo Abe era a colloquio con la guida suprema della Repubblica islamica Ali Khamenei, e gli aveva appena consegnato una lettera di richieste da parte del presidente americano Donald Trump. Qualcuno, è il sospetto di molti, ha voluto far saltare la possibile mediazione.

Gli attacchi

Sono le sei del mattino quando cominciano gli attacchi. La prima petroliera colpita è la Kakuka Courageous, di proprietà giapponese, che trasporta un carico di metanolo dall’Arabia Saudita a Singapore, centrata due volte a 26 chilometri dalle coste iraniane. L’altra è la Front Altair, nave norvegese con un carico di 75 mila tonnellate di nafta, diretta dal porto emiratino di Ruwais a Taiwan e raggiunta «da un siluro», secondo il ministro del Commercio nipponico. È la situazione più critica, perché a bordo si sviluppa un incendio incontrollabile che coinvolge anche la sala motori. Ieri sera era inclinata sul fianco destro e a serio rischio di affondamento. Il siluramento non è però la sola ipotesi. L’altra è che commando subacquei abbiano piazzato esplosivi sulle fiancate, oppure che le navi abbiamo urtato mine. Un ordigno inesploso viene trovato vicino all’Oman.

Sul luogo del disastro incrociano navi militari iraniane e statunitensi. Teheran comunica di aver tratto in salvo e condotto nel porto di Bandar Abbas 21 marinai dalla Kokuka Courageous e 23 dalla Front Altair. L’americana USS Bainbridge porta invece gli altri in Oman. La solidarietà in mare non stempera però le tensioni fra i due Paesi. In serata il segretario di Stato Mike Pompeo accusa l’Iran di essere «il responsabile» degli attacchi e di voler bloccare «il flusso di petrolio attraverso lo Stretto di Hormuz» per «colpire gli alleati degli Stati Uniti» e alimentare le tensioni mondiali.

Le accuse

Anche l’Arabia Saudita puntato il dito contro la Repubblica islamica che «da quarant’anni porta caos e morte nella regione», mentre Mosca invita a non «accusare subito l’Iran». Per il ministro degli Esteri iraniano Jawad Zarif la tempistica degli attacchi è però «a dir poco sospetta», perché condotti proprio quando Abe e Khamenei erano impegnati in «approfonditi e amichevoli colloqui». Per l’analista libanese Elijah Magnier, che pure non esclude che l’Iran possa esser dietro un altro attacco, quello del 12 maggio a 4 petroliere davanti alle coste degli Emirati, è «poco probabile» che Teheran abbia voluto rilanciare l’escalation durante la visita del leader giapponese.

Analisti israeliani sostengono invece che la circostanza era propizia proprio per allontanare i sospetti. Anche perché Khamenei ha gelato Abe e, nonostante il riconoscimento della sua «buona volontà», gli ha detto che non risponderà a Trump «per non ripetere gli errori del passato». Cioè, non si fanno accordi con l’America. Dal canto suo Trump ha twittato ieri sera: «Penso sia troppo presto addirittura per pensate di fare un accordo. Loro non sono pronti, e neppure noi!» .

È possibile che l’ala oltranzista dei Pasdaran abbia voluto affossare ogni possibile mediazione e lanciare un’ulteriore sfida dopo gli attacchi del 12 maggio. Nel frattempo gli Stati Uniti hanno inviato nel golfo dell’Oman la portaerei a propulsione nucleare Abraham Lincoln e bombardieri B-52 nelle loro basi nel Golfo e ieri notte hanno chiesto una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu, a porte chiuse. La rotta del petrolio è sempre più affollata e basta un nulla a incendiarla.

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