I fatti uno in fila all’altro, brutali, drammatici. Primo: “Martina Rossi non si è tolta volontariamente i pantaloncini che indossava”. Secondo: “Qualcuno deve averle tolto i pantaloncini, contro la sua volontà, manifestata apertamente, quindi con violenza”. Terzo: “Nella camera c’erano soltanto Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi”. Quarto: “A siffatta violenza, Martina Rossi non è rimasta inerme, ma ha cercato di reagire con forza”. Quinto e ultimo punto: “La ragazza, dopo essersi opposta alla violenza, graffiando il collo dell’imputato Albertoni, era riuscita a fuggire dai due aggressori dirigendosi verso il balcone aperto della camera e poi, oltrepassando il muretto divisorio verso il terrazzino della camera a destra, nello sporgersi dalla ringhiera o nello scavalcarla, era così caduta nel vuoto”.
Questo accadde all’alba del 3 agosto 2011, nell’hotel Santa Ana di Palma di Maiorca. Così morì Martina Rossi, brillante studentessa di Architettura al Politecnico di Milano, figlia del camallo Bruno e di Franca Murialdo, all’epoca 20enne. Non fu un suicidio, come avevano stabilito in fretta e furia le autorità spagnole. Verdetto mai accettato dai genitori di Martina, che avevano fatto riaprire le indagini alla polizia di Genova.
Fu la disperazione, lo schock e il tentativo di fuga dai propri aggressori che causarono la caduta dal sesto piano dell’hotel, dalla stanza 609. Il giudice Angela Avila, in 113 pagine complete ed esaustive spiega perché il tribunale di Arezzo lo scorso 12 dicembre ha condannato a sei anni i due ragazzi di Castiglion Fibocchi, Albertoni e Vanneschi, per violenza sessuale e morte come conseguenza di altro reato. Come aveva richiesto il pubblico ministero Roberto Rossi.Il deposito delle motivazioni è arrivato ieri mattina, dopo una proroga perché nel frattempo allo stesso giudice è stato dato un altro incarico. E adesso per i legali dei genitori di Martina, Stefano Savi di Genova e Luca Fanfani di Arezzo, è una corsa contro il tempo. Sul processo di appello incombe il rischio di prescrizione. È vero però che per Bruno e Franca davvero imprescindibile era fissare una verità, smontare una volta per tutti quella ricostruzione dei fatti, che aggiungeva soltanto dolore al dolore.
E dunque il tribunale di Arezzo spiega. Demolisce tutti i punti forti delle difese, che avevano insistito tanto sulla dinamica dei fatti quanto sulla psicologia di Martina. Non poteva “aver preso la rincorsa”, la 20enne genovese, per buttarsi dal sesto piano. Perché la caduta è stata verticale, a candela. Compatibile con lo scivolamento nel tentativo di raggiungere il terrazzino della stanza a fianco, da parte di una persona a piedi nudi e senza occhiali da vista che abitualmente portava.
Per quanto riguarda invece gli attacchi, durissimi, alla personalità di Martina da parte dei legali e dei consulenti tecnici delle difese, il tribunale non si sottrae e ribatte colpo su colpo. È vero, in passato Martina aveva superato con grandi difficoltà una delusione di amore e aveva manifestato il suo dolore con gesti che avevano fatto preoccupare i suoi genitori. Per questo era stata seguita da medici specializzati. Ma la ragazza aveva smesso “il trattamento farmacologico da circa due anni rispetto alla data del decesso”. Soprattutto, a detta dei suoi medici, dei suoi genitori, di tutte le sue amiche, nessuna esclusa, dopo essersi trasferita a Milano Martina “stava bene. Era una persona stabile, solida, più matura, più sicura e soprattutto ‘proiettata sul futuro’, circostanza di fondamentale rilievo perché in contrapposizione con il pensiero suicidario”.
Il peso di quanto dichiarato dall’inserviente dell’hotel Francisca Puga, ritenuta una testimone chiave della difesa e sentita tre volte in Spagna, viene notevolmente ridimensionato. Per lei si trattava di un suicidio, ma il tribunale scrive che “era a distanza, in posizione laterale, con una angolo visuale ridotto e la prospettiva falsata”. Anzi, il tribunale di Arezzo non può fare a meno di notare come la stessa polizia sembra fare pressione alla Puga dopo una parziale retromarcia della donna di fronte al magistrato spagnolo: “Parrebbe che i poliziotti – così facendo, senza garanzie di legge – sollecitino la testimone a confessare di aver fatto una falsa testimonianza al giudice”.
Impossibile, spiega il tribunale, concedere le attenuanti generiche ad Albertoni e Vanneschi. E qui si apre la parte forse più dolorosa delle motivazioni, che ricostruisce il comportamento dei due dopo la morte di Martina. La “messinscena”, il tentativo di far passare la ragazza genovese per una pazza con problemi di cuore che prima tenta di aggredire gli aretini e poi si butta dalla finestra. Gli incontri prima di essere convocati in Questura a Genova per “concordare” quel che bisognava dire. L’esultanza, sbirciando il fascicolo di indagine, nell’apprendere che “non c’è traccia di violenza sessuale”. I post su Facebook in cui i due esaltavano la vacanza spagnola (“Abbiamo lasciato il segno!!”), proseguita “come se nulla fosse accaduto, senza scrupoli, indifferenti, spensierati, e continuando a divertirsi”.