Su Facebook, pubblicava selfie sorridenti e foto di viaggi, ma era sempre parecchio impegnata in affari riservati. Rita Fontana, la figlia trentenne di uno storico boss palermitano (deceduto nel 2012), era al centro degli affari di famiglia, fra la Sicilia e Milano. Affari nella produzione e nella distribuzione di caffè. La figlia di Stefano Fontana è stata arrestata questa mattina nella sua abitazione di Rozzano, centro dell’area metropolitana milanese, dagli investigatori del nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo.
Le indagini, coordinate dalla procura distrettuale antimafia del capoluogo siciliano, hanno portato in carcere anche uno dei fratelli di Rita, Giovanni, e altre quattro persone. Tutte accusate di aver gestito il tesoro del clan dell’Acquasanta, da sempre vicino a Totò Riina: i soldi del clan erano stati investiti in due società palermitane che si occupano di caffè, la “Cafè Moka special di Pensavecchia Gaetano e c. snc” e la “Masai caffè srl”. Un affare lucroso. Le due società, adesso sequestrate, valgono un milione e mezzo di euro. E i boss si preparavano ad allargare gli investimenti nella rete di distribuzione. Intanto, gli emissari della cosca imponevano l’espresso di Cosa nostra a tanti commercianti siciliani. Il caffè è al momento uno dei business più redditizzi per le cosche: qualche giorno fa, il prefetto di Palermo Antonella De Miro ha fatto scattare un’interdittiva antimafia per quattro società, dopo un’altra indagine, dei carabinieri.
L’indagine
Rita se ne stava Milano. Ufficialmente, lei e il fratello lavorano nello studio di un commercialista. E di tanto in tanto tornavano a Palermo. Per curare affari e per prendere soldi in contanti, che viaggiavano verso il Nord, dove si era trasferito anche il più autorevole dei quattro figli di Stefano, Gaetano (di recente, la polizia gli ha sequestrato una gioielleria nel quadrilatero della moda di Milano, che ha aperto dopo la scarcerazione).
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A far scattare l’ultima indagine sui Fontana – condotta dai sostituti procuratori Dario Scaletta, Amelia Luise e dall’aggiunto Salvatore De Luca – sono state le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia: Vito Galatolo e Silvio Guerrera. Gli investimenti sono emersi in maniera chiara grazie alle intercettazioni del Gico, il gruppo antimafia del nucleo di polizia economico finanziario. “Le indagini della Guardia di finanza, coordinate dalla procura di Palermo, puntano alla sistematica aggressione dei patrimoni illecitamente accumulati e reinvestiti dall’organizzazione mafiosa”, dice il colonnello Cosmo Virgilio, il comandante del nucleo. “I mafiosi continuano a far ricorso a imprenditori prestanome disponibili a scendere a patti con i gruppi criminali operanti sul territorio”.
Le intercettazioni
Imprenditore di mafia è ritenuto Gaetano Pensavecchia, anche lui finito in manette stanotte. Diceva (e non sospettava di essere intercettato): “La maledizione del Signore è che siamo in società con questi”. Lerichieste dei mafiosi si facevano sempre più pressanti. Pensavecchia ripeteva: “E’ da due anni a questa parte, troppe cose male, troppe cose male, una cosa buona non mi è venuta”. E ancora: “Loro vogliono i soldi, che appena tu arrivi a 150 mila euro, ti dicono no, io rimango sempre socio”. Secondo la riicostruzione della Guardia di finanza, Pensachevvia era perfettamente a conoscenza delle dinamiche mafiose.
Diceva anche: “Ogni zona ha il suo parrino”. Fra l’Arenella e l’Acquasanta, operavano altri due fedelissimi dei Fontana, Filippo Lo Bianco e Michele Ferrante. La società con Pensavecchia andava avanti dal 2014, era iniziata con un investimento di una cifra fra 150 mila e 300 mila euro, un tesoretto sfuggito ai sequestri. Soldi provenienti dalle estorsioni e dal traffico di droga, ma anche dai subappalti all’interno dei Cantieri navali di Palermo.