Niente truffe a Riace, niente ruberie, niente matrimoni di comodo. Così afferma la Cassazione, che nell’ordinare ai giudici di Reggio Calabria di valutare nuovamente se protrarre o meno l’esilio di Mimmo Lucano, demolisce l’impianto accusatorio che contro di lui è stato messo insieme dalla procura di Locri.
Sotto inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e presunti illeciti nell’affidamento degli appalti per la differenziata, finito prima ai domiciliari, quindi allontanato dalla “sua” Riace per ordine dei giudici, Lucano incassa una vittoria rotonda. Forse la più netta nella vicenda giudiziaria che lo vede protagonista, per di più nelle settimane in cui a Locri si decide se dovrà o meno affrontare il processo.
I due procedimenti viaggiano su binari diversi. Gli ermellini sono stati consultati riguardo il provvedimento che da mesi permette a Lucano di stare in tutta Italia tranne che nella “sua” Riace, lunedì scorso a Locri è iniziata l’udienza preliminare che dovrà stabilire se ci sono elementi a sufficienza per mandare il sindaco e altri 29 indagati a giudizio. Le parole della Cassazione però hanno un peso.
E a detta della Suprema Corte, quanto meno riguardo i presunti illeciti nella gestione della differenziata, gli elementi a carico di Lucano non ci sono.
L’appalto – si legge nelle motivazioni – è stato affidato in modo assolutamente regolare. Lo hanno deciso in modo collegiale da Giunta e Consiglio Comunale, sulla stregua di pareri di regolarità tecnica e contabile, sottoscritti dal segretario e dai funzionari tecnici del Comune, dopo averlo reso pubblico e noto a tutti grazie all’istituzione persino di un albo comunale delle cooperative.
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In più, sottolinea la Cassazione, a Riace – borgo di un pugno di case che si arrampicano lungo vicoli strettissimi – era stato deciso di ricorrere “alla modalità dell’asinello porta a porta per la raccolta dei rifiuti urbani”. Nel contestare a Lucano di aver affidato ”a tutti i costi” l’appalto alle due coop sociali che hanno svolto il servizio, i magistrati calabresi – fa notare la Suprema Corte – non si sono soffermati “su quali altre imprese in quel territorio avrebbero potuto svolgerlo, tenuto conto della conformazione del centro storico del Comune interessato e delle specifiche caratteristiche del servizio”.
Per la Corte non basta “il generico riferimento alla presenza di interferenze od opacità”, sono “contraddittorie” e “illogicamente formulate” le argomentazioni a sostegno della presunta irregolarità dell’appalto, è “apoditticamente evocata” la presunta malafede di Lucano nell’assegnazione del servizio. Ma soprattutto, l’intera procedura era perfettamente regolare. È la legge – sottolineano i magistrati della Suprema Corte – che consente “l’affidamento diretto di appalti” in favore delle cooperative sociali “finalizzate all’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate” a condizione che gli importi del servizio siano “inferiori alla soglia comunitaria”.
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Insomma, Lucano non si è messo in tasca un euro e non ha favorito nessuno. E per la Cassazione non ha neanche celebrato matrimoni di comodo fra riacesi e migranti. I magistrati della Suprema Corte lo mettono nero su bianco. È vero, ci sono elementi per sostenere che abbia aiutato la sua compagna, Lemlem Teshfaun, nel tentativo (fallito) di farsi raggiungere dal fratello in Italia. Ma in quel caso va valutata “la relazione affettiva tra i due”, non si trattava di una prassi comune. Per quanto riguarda invece i presunti matrimoni di comodo, più volte evocati dai magistrati calabresi, per la Cassazione non sono più di un vago richiamo “non solo sfornito di significativi e precisi elementi di riscontro, ma, addirittura, escluso da qualsiasi contestazione formalmente elevata”. E proprio perché mancavano gli elementi necessari per poterlo fare.