Quando cala la sera, in una notte senza Luna in cui l’aria è particolarmente limpida, alzando lo sguardo al cielo la visione che si prospetta ai nostri occhi è quella di una moltitudine di punti luminosi che brillano su uno sfondo scuro. Siamo così abituati alla notte che ci avvolge con la sua oscurità, che spesso non ci soffermiamo a riflettere su una questione abbastanza delicata:perché il buio? Una domanda che sembra banale, ma sotto alla cui risposta si celano studi di decenni e persino un paradosso. Di recente sono arrivate delle novità un recente studio pubblicato su The Astrophysical Journal.
Il paradosso di Olbers
L’Universo trabocca di corpi luminosi; miliardi di galassie che a loro volta contengono miliardi di stelle. Immaginiamo un Universo fatto solo di stelle grandi quanto il Sole; dividiamolo in tanti gusci concentrici e contiamo le stelle presenti in ognuno di questi strati. Se gli oggetti luminosi sono distribuiti più o meno uniformemente (ovvero la densità dei corpi è costante) nel Cosmo, allora un guscio a una distanza doppia rispetto a un altro conterrà il quadruplo delle stelle.
Ora prendiamo una sorgente luminosa, come una lampadina. L’intensità della luce osservata diminuisce con il quadrato della distanza, ovvero il doppio più lontano implica che ricevo un quarto dei fotoni rispetto a prima. Mettendo insieme le due cose avrei quattro volte il numero di stelle, ma la luminosità di ciascuna sarà quattro volte minore… in totale ottengo la stessa identica quantità di luce che riceverei dal guscio più vicino. Se l’Universo fosse sufficientemente grande da contenere un numero molto elevato di strati (al limite infinito) allora la luce di ciascuno di essi si sommerebbe dando luogo a un cielo tutt’altro che oscuro… anzi, ogni sua parte sarebbe brillante quanto il Sole stesso!
È questa la sconcertante idea alla base del celebre “Dark Night Sky paradox” o paradosso di Olbers, descritto dall’astronomo tedesco Heinrich Wilhelm Olbers nel 1823 (anche se diverse fonti non attribuiscono a lui la prima formulazione del problema). La questione può essere così enunciata:
“Assumendo un universo statico e infinito, popolato da un numero infinito di stelle distribuite in maniera uniforme nello Spazio, allora il cielo dovrebbe essere uniformemente luminoso almeno quanto la superficie del Sole”.
Una delle prime e più semplici obiezioni che è stata mossa al paradosso riguarda il fatto che lo spazio tra noi è le stelle non è vuoto, ma ricolmo di gas e polveri; le particelle di materia sparse nell’Universo possono assorbire la luce, rielaborandola a lunghezze d’onda non osservabili dall’occhio umano, e quindi oscurare le sorgenti che l’hanno emessa. Il problema è che la radiazione trasporta energia; in altri termini, nell’assorbire luce, la polvere si riscalda. Se l’intensità della luce rimane costante, le particelle aumenteranno la loro temperatura fino a raggiungere quella delle stelle, iniziando a emettere radiazione visibile proprio come gli altri oggetti luminosi, rendendo la situazione addirittura peggiore.
Dunque questa ipotesi non sembrerebbe certamente la più adatta a risolvere l’apparente stranezza… anche se, come vedremo, nuovi risultati freschi di pubblicazione, combinati con altri più solidi tentativi di svelare l’arcano, potrebbero cambiare leggermente il punto di vista.
Per cominciare, diamo un’occhiata alla prima frase del nostro paradosso: “universo statico e infinito”. Ecco centrato il problema; l’Universo, (come gli oggetti che esso contiene, d’altronde) è ben lungi dall’essere statico e infinito. Ha avuto inizio, all’incirca 14 miliardi di anni fa, dal Big Bang, e da allora ha continuato a espandersi. Poiché la velocità della luce è anch’essa limitata, non saremo mai in grado di osservare tutte le sorgenti nell’Universo, ma solo quelle la cui radiazione ha avuto abbastanza tempo per giungere fino a noi. Inoltre, l’espansione del Cosmo produce un altro interessante effetto sui malcapitati fotoni che si propagano su di esso: il redshift, conseguenza dell’Effetto Doppler cosmologico.
Immaginiamo di essere fermi ad una piazzola in autostrada e concentriamoci sul suono delle vetture che ci sfrecciano davanti. Ci accorgeremo come questo suono diventi più acuto o più grave a seconda che l’auto si avvicini o si allontani da noi; ciò avviene perché le onde emesse da una sorgente in movimento si “comprimono” quando la sorgente si muove nella nostra direzione (ovvero la frequenza aumenta e la lunghezza d’onda diminuisce) e si “dilatano” quando si muove nella direzione opposta (ovvero la frequenza diminuisce e la lunghezza d’onda aumenta).
Lo stesso effetto si verifica per i fotoni, i pacchetti di energia o quanti che compongono le onde elettromagnetiche, di cui la luce fa parte. Se un corpo celeste si allontana da noi, la radiazione visibile che esso emette ci giungerà slittata verso frequenze più basse, corrispondenti ad un colore tendente al rosso, da qui il nome redshift. Questo spostamento risulta tanto più grande quanto maggiore è la velocità della sorgente nella direzione opposta alla nostra. Poiché la velocità di espansione aumenta con la distanza, questo implica che più un oggetto è lontano e più si trova “ad alto redshift” (come si dice in gergo tecnico).
Se un corpo celeste si allontana da noi, la radiazione visibile che esso emette ci giungerà slittata verso frequenze più basse, corrispondenti ad un colore tendente al rosso, da qui il nome redshift. Questo spostamento risulta tanto più grande quanto maggiore è la velocità della sorgente nella direzione opposta alla nostra. Poiché la velocità di espansione aumenta con la distanza, questo implica che più un oggetto è lontano e più si trova “ad alto redshift” (come si dice in gergo tecnico).
L’occhio umano può percepire lunghezze d’onda non più grandi di 750 nanometri. Per valori maggiori (ovvero frequenze più piccole) i fotoni ricadono nella banda dell’Infrarosso, dove non siamo più in grado di vederli. Quindi tutta la luce di stelle e galassie sufficientemente lontane, sebbene abbia avuto abbastanza tempo per farsi strada fino alla Terra, non è osservabile dal romanticone di turno sdraiato sul prato a fissare il cielo semplicemente perché a frequenze troppo basse per essere individuate dal suo occhio.
La nuova ricerca
Ciò è sufficiente per mettere definitivamente la parola “fine” sulla questione di Olbers? Secondo un recente studio pubblicato su The Astrophysical Journal è necessario effettuare uno step ulteriore.
La ricerca, condotta da Christopher J. Conselice, professore all’Università di Nottingham, e dai suoi collaboratori, sfrutta i dati ottenuti attraverso le così dette “deep Surveys”, campagne di osservazioni pensate per individuare oggetti estremamente deboli e lontani, per capire come il numero delle galassie si modifica con la distanza e con il tempo. Più in dettaglio, il team di Conselice si è servito delle funzioni di massa delle galassie (cioè quante galassie di una data massa mi aspetto ad una certa distanza e ad una certa epoca) calcolate da vari precedenti lavori basati sulle osservazioni con il telescopio spaziale Hubble e altri telescopi da terra, fino ad un redshift pari a 8. Così lontano che la lunghezza d’onda della luce emessa dagli oggetti più distanti ci arriva dilatata di ben nove volte!
I risultati dello studio mostrano che più si guarda indietro nel tempo, più la densità di galassie aumenta, come ci si aspetta dai modelli cosmologici di “clustering gerarchico”: le strutture nell’Universo si formano partendo da oggetti piccoli che si agglomerano nel tempo. Ma questo non è tutto: se si sfrutta la relazione ricavata per calcolare qual è il numero totale di galassie presenti nell’Universo fino a redshift 8, si ottiene all’incirca 2000 miliardi, un valore 10 volte più grande di quello precedentemente stimato dalle osservazioni! Un bel malloppo, non c’è che dire, tuttavia rimane ancora da specificare come questo risultato possa collegarsi al paradosso di Olbers.
Presto detto: una ammontare così grande di galassie sarebbe sufficiente per ricoprire ogni minima porzione del cielo, ma allora perché non siamo in grado di individuarle tutte nemmeno con la tecnologia di cui oggi disponiamo? Anche solo ad occhio nudo, la luce prodotta da galassie fino a redshift 5 dovrebbe ancora essere osservabile, generando un fondo luminoso diffuso nella volta celeste.
La spiegazione fornita da Conselice e collaboratori riporta in auge l’idea della polvere: l’enorme quantità di materia che si frappone tra noi e galassie distanti milioni o miliardi di anni luce è effettivamente in grado di assorbire la loro radiazione, questa volta senza troppi problemi legati al riscaldamento. Infatti lo slittamento nella frequenza della luce produce una conseguente diminuzione dell’energia trasportata dai fotoni, troppo deboli per provocare “danni” considerevoli alla polvere in un Universo che continua ad espandersi e raffreddarsi!
Per chiarire meglio l’idea, immaginiamo di trovarci immobili in una stanza chiusa davanti a 10 stufette che continuano a riscaldare l’ambiente sempre con la stessa intensità; anche la persona più freddolosa del mondo comincerebbe a sentire una discreta calura in breve tempo. Ecco, questa sarebbe la situazione in un Universo statico e infinito. Ora prendiamo le stesse stufette e andiamo all’aperto, di notte in inverno; all’improvviso qualcuno comincia ad allontanarle da noi, ciascuna in una direzione diversa. Dopo pochissimi secondi, il calore emesso dalle stufe sarà talmente debole che non riusciremo più a percepirlo. Questo è invece ciò che accade se si considera un Universo in espansione.
In conclusione, qual è la soluzione al paradosso di Olberst? Direi un gustoso mix tra finitezza in età e in dimensione del Cosmo, arricchita dalla sua storia di evoluzione tutt’altro che statica con un delicato condimento di gas e polveri per bloccare un po’ di fastidiosa luce in eccesso.
Nel frattempo, sulla base dei risultati del team di Conselice, dovremo attendere nuove e più sofisticate apparecchiature, telescopi sempre più all’avanguardia in grado di setacciare il cielo per stanare le galassie mancanti.
Lorenzo Pizzuti è laureato in Fisica presso l’Università degli Studi di Perugia e diplomato in pianoforte presso il conservatorio Briccialdi di Terni, è attualmente iscritto al primo anno del dottorato di ricerca in Fisica presso l’Università di Trieste. Lavora in cosmologia all’Osservatorio Astronomico diTrieste (OATS-INAF) principalmente su modifiche della gravità. La sua ricerca prende in esame gli ammassi di galassie, per “leggere” attraverso l’analisi del moto delle galassie e della luce se la gravità si comporta come Einstein ha teorizzato oppure se qualcosa di diverso accade. Ha una prima pubblicazione sulla rivista scientifica JCAP. Oltre all’ambito accademico, è attivo nella divulgazione scientifica, ha partecipato e vinto la selezione nazionale del concorso “FameLab” nel 2016 e si è classificato tra i primi 12 alla finale mondiale. Siamo felici di annunciarvi che collabora con Tom’s Hardware per la produzione di contenuti scientifici.