ROMA – La crescita si è consolidata (ma la corsa del Pil nel Mezzogiorno si ferma), l’occupazione è tornata quasi ai valori precrisi, grazie soprattutto ai servizi, sono ripartiti consumi ed esportazioni. Eppure l’Italia è cambiata: dal 2008 a oggi l’industria ha perso 896.000 dipendenti, e i servizi ne hanno acquistato 810.000, un milione di operai sono usciti dal mercato mentre sono entrati 861.000 impiegati, sono scomparsi 500.000 autonomi e sono entrati altrettanti lavoratori dipendenti, sono usciti 471.000 uomini e sono entrate 404.000 donne, e ci sono un milione di part-time in più, il lavoro è decisamente più precario rispetto a dieci anni fa.
Ma non è solo il mondo del lavoro che è cambiato: il Sud, che tra il 2015 e il 2016 aveva registrato una crescita superiore a quella del resto del Paese, si spopola e la popolazione si concentra sempre di più nelle grandi città del Nord. Continua la fuga degli italiani all’estero: solo nel 2017 153.000 italiani si sono cancellati dall’anagrafe per traferirsi principalmente in Gran Bretagna, Germania e Francia. In compenso l’anno precedente 201.000 stranieri acquisivano la cittadinanza italiana.
E poi sembrano attenuarsi certe abitudine connaturate alla nostra mentalità: tra i giovani, soprattutto tra i laureati, si attenua il peso di quello che per decenni è stato il principale canale di collocamento in Italia, la rete di “amici, parenti e conoscenti”. I giovani scelgono Internet, mandano curriculum, rispondono all’annuncio, e il risultato è sorprendente: l’inserimento lavorativo “avvenuto attraverso le segnalazioni di familiari o amici porta a ottenere un impiego caratterizzato in assoluto da retribuzioni più basse, minore stabilità e coerenza col il percorso di studi concluso”. Tuttavia l’87,5% dei disoccupati cerca lavoro ancora attraverso canali informali: reti personali, parenti, amici e conoscenti. Ma l’85,3% utilizza canali formali non istituzionali (consulta annunci, inserzioni sui giornali o Internet).
Il 2017, una buona annata. Nel 2017, il Pil è cresciuto dell’1,5%, registrando il miglior risultato dal 2010; la crescita è continuata nel primo trimestre 2018, anche se in rallentamento, segnando il quindicesimo mese di aumento consecutivo. La crescita ha accelerato la ripresa del lavoro: il monte-ore ha raggiunto quota 10,8 miliardi, vicinissima ormai al recupero dei livelli precrisi (circa 11,5 miliardi di ore nel 2007). L’espansione dell’attività ha raggiunto tutti i settori produttivi, a eccezione dell’agricoltura, con un aumento più marcato nell’industria: la produzione industriale è aumentata del 3,6% rispetto all’1,9% del 2016. Nei servizi è andata ancora meglio, con una crescita del 4,5% in particolare nel comparto dell’alloggio e della ristorazione.
Tornano a crescere anche le costruzioni. Per la prima volta dal 2008 l’indice della produzione nelle costruzioni ha mostrato una variazione positiva, +0,8%, con un andamento particolarmente vivace nell’ultima parte dell’anno. Riparte l’inflazione, all’1,3% dopo tre anni di stagnazione.
Nel Mezzogiorno allarme povertà, cresce la disuguaglianza. Dal 2018 entrano a regime gli indicatori del Benessere equo e sostenibile, che andranno allegati ogni anno al Documento di Economia e Finanza (l’anno scorso si era partiti in via sperimentale prendendo in considerazione solo quattro dei dodici indicatori). Emerge un miglioramento sul fronte della sicurezza, scendono i reati “predatori” (furti in abitazione, borseggi e rapine), cresce la partecipazione nel mercato del lavoro. Ma alla crescita si associazione un aumento della disuguaglianza e della povertà. La povertà assoluta in particolare aumenta nel Mezzogiorno, mentre si riduce nel Centro e nel Nord: riguarda poco meno di 1,8 milioni di famiglie, con un’incidenza del 6,9%, in aumento rispetto al 6,3% del 2016. In crescita dunque anche il numero delle persone in stato di povertà assoluta: sono cinque milioni, con un’incidenza dell’8,3% dal 7,9% del 2016. Cresce anche la disuguaglianza economica.
Il Sud indietro anche sul lavoro. Il Mezzogiorno rimane indietro anche rispetto al forte recupero del mercato del lavoro: rimane infatti l’unica ripartizione con un saldo occupazione ancora negativo rispetto al 2008 (310.000 lavoratori in meno). Mentre per il resto del Paese va molto meglio: il tasso di occupazione cresce in Italia per il quarto anno consecutivo, attestandosi al 58% nel 2017, tuttavia ancora 0,7 punti percentuali sotto il livello del 2008 e lontano dalla media Ue. Cresce molto la componente femminile (+1,7% dal 2008) ma l’Italia continua ad essere il Paese Ue con il tasso di occupazione femminile più basso (48,9% contro il 62,4%).
L’istruzione favorisce il lavoro e migliora la vita. L’incremento maggiore del tasso di occupazione riguarda i laureati: nel 2017 risultano occupati quasi otto laureati su 10, due diplomati su tre e solo quattro persone su dieci con la licenza media. Ma anche lo stato di salute risente delle caratteristiche socio-economiche delle persone e delle famiglie, anche se in Italia il welfare ha ancora un peso significativo, e c’è una maggiore omogeneità dello stato di salute rispetto alla posizione economica. Inoltre tra i più istruiti si osserva una maggiore frequentazione degli amici, e a un livello più alto di istruzione e di reddito si associa una maggiore probabilità di essere coinvolti in una qualche forma di partecipazione sociale (la probabilità per i laureati è circa il 40% più alta rispetto a chi si è fermato al livello di istruzione superiore).
L’Italia non è più il Paese dei raccomandati. Dai giovani laureati arriva anche un dato sorprendente: il canale tradizionalmente preferito dagli italiani nella ricerca di lavoro, “amici, parenti e conoscenti” non è più al primo posto. Tra i laureati del 2011 occupati nel 2015 uno su tre ha trovato lavoro grazie all’inserzione sui giornali o Internet o l’invio del curriculum ai datori di lavoro, mentre solo uno su quattro attraverso una segnalazione di parenti amici o la conoscenza diretta del datore di lavoro.
Alleva: potenziare i centri per l’impiego. Ma c’è di più: chi trova lavoro con canali “formali” dichiara una maggiore soddisfazione per l’impiego ottenuto, mentre un inserimento lavoraotri avvenuto attraverso le segnalzioni di familiari o amici porta a ottenere “un impiego caratterizzato in assoluto da retribuzioni più basse, minore stabilità e corenza con il percorso di studi conclusi”. Il 40% dei giovani diplomati nel secondo trimestre 2016 e il 30% dei giovani laureati hanno dichiarato che per svolgere adeguatamente il loro lavoro sarebbe sufficiente un livello di istruzione più basso rispetto a quello posseduto. Il mismatch tuttavia è del 47,6% tra i diplomati e del 51,8% per i laureati che hanno utilizzato canali informali, mentre si riduce al 36,8% per i diplomati e al 27,9% per i laureati che hanno utilizzato canali formali. Tuttavia i canali formali vanno rafforzati, sottolinea il presidente dell’Istat Giorgio Alleva: “Il rafforzamento dei servizi per l’impiego rappresenta un elemento cruciale per realizzare politiche attive del lavoro efficaci, anche con riferimento alle misure di contrasto della povertà e dell’esclusione sociale”.
E riparte anche l’ascensore sociale. Ognuno giovane che si affaccia nel mondo del lavoro e in generale nella società si porta dietro una “dote familiare” in termini di occupazione e istruzione, e di reddito, che si traduce in maggiori o minori chance di riuscita personale. L’Istat ritiene che il 43,5% degli individui disponga di una dote “bassa”, il 48,2% di una “media” e solo l’8,4% di una alta. Evidentemente le cose vanno meglio a chi parte avvantaggiato: il 26,5% di coloro che godono di una dote familiare alta conseguono un titolo di studio universitario, dieci punti in più rispetto a chi ha una dote familiare bassa, e il 29,2% raggiunge una posizione lavorativa alta (dirigente, quadro, imprenditore o professionista). Però non siamo una società immobile: partendo con una dote bassa, il 18,5% degli individui ottiene un titolo di studio universitario e il 14,8% ottiene una posizione lavorativa qualificata.