ROMA – “Non sarà mafia, ma non è nemmeno solo corruzione”. Con i modi felpati che il ruolo istituzionale comanda, la commissione parlamentare antimafia si schiera con i magistrati romani che nel dicembre scorso hanno presentato appello contro la sentenza del processo alla ‘Mafia capitale‘ di Massimo Carminati. Un’associazione mafiosa in tutto e per tutto secondo la procura di Roma, contrariamente a quanto affermato dai giudici della X sezione del tribunale, che hanno condannato Carminati e soci come capi e gregari di due semplici associazioni a delinquere. Una tesi, quella della Distrettuale guidata da Giuseppe Pignatone, a quanto pare condivisa anche dai parlamentari di palazzo san Macuto, che nella propria relazione annuale – oggi ai ritocchi finali e di cui Repubblica ha potuto leggere un’anticipazione – lo mettono, seppur diplomaticamente, nero su bianco.
“Perché l’associazione mafiosa possa definirsi mafiosa non è necessario – si legge in un passaggio – che sia un’articolazione di ‘Cosa nostra’, una ‘ndrina, o un sodalizio comunque riconducibile ad un’associazione criminale di risalente tradizione, insistente su un territorio ove da tempo sia radicata”. A dirlo, per i parlamentari, è quell’articolo 416 bis che ha normato l’associazione mafiosa, secondo cui sono da considerare mafie anche “altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguano scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”.
Parole nette e riferimenti chiari, solo temperati dal passaggio in cui la commissione ci tiene a sottolineare che “non si vuole, con tali precisazioni, interferire con la vicenda di Mafia capitale e sostituirsi a valutazioni proprie della magistratura”. Tuttavia, al netto della necessaria diplomazia istituzionale, la linea tracciata dalla commissione appare chiara. “Già in Sicilia, sino alla sentenza del maxiprocesso, si metteva in dubbio l’esistenza di Cosa Nostra nonostante la sua pervasiva presenza si avvertisse in ogni angolo di strada. E proprio a Roma – aggiungono i parlamentari – qualche anno fa, si “graziava” la banda della Magliana ritenendola una semplice organizzazione criminale. Sono noti, anche oggi, i danni che ha provocato la più recente sottovalutazione e la rimozione del fenomeno mafioso in regioni come la Lombardia, il Piemonte, l’Emilia o la Liguria”.
Per la commissione, è necessario comprendere e riconoscere le mafie nelle loro rapide evoluzioni. Una questione “che non riguarda l’autorità giudiziaria – si specifica – ma la cittadinanza nel suo complesso”, oggi come in passato incapace di percepire la pervasività e la pericolosità delle mafie fin quando il territorio non ne risulta totalmente compromesso.
Per la commissione parlamentare antimafia, si tratta di un errore già troppe volte fatto in passato e che non bisogna tornare a ripetere, in Italia in generale e a Roma – sembra di capire – in particolare. Nella Capitale – si sottolinea con parole durissime nella relazione – ha agito per anni un gruppo criminale composito e strutturato, in grado di agire su due fronti, uno strettamente criminale, l’altro in grado di condizionare la pubblica amministrazione e l’economia. Mafia Capitale era un Giano bifronte che ha “tenuto in ostaggio” le istituzioni capitoline, occupando un territorio “con metodi tali -mafiosi o non mafiosi che fossero – che di fatto hanno svuotato la res pubblica delle basilari regole di funzionamento, aprendo il varco a interventi di deviazione dell’azione amministrativa determinati da intimidazioni, o comunque da fenomeni corruttivi”.
Per la commissione, il Comune di Roma si è dimostrato tanto grande, quanto indifeso di fronte ad un’associazione criminale che ha condizionato “pesantemente il processo di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi”. Al riguardo – si legge nella relazione – le inchieste romane hanno fatto emergere “le responsabilità complessive delle classi dirigenti della Capitale, che fino all’intervento della magistratura, non hanno dimostrato consapevolezza del fenomeno arrecando un grave danno alla vita dei cittadini per la mancata attività di prevenzione, in sede amministrativa, dei fenomeni criminali”. Un atteggiamento figlio di un fatalismo – a detta dei parlamentari – che ha permesso a Carminati e ai suoi di raggiungere quello che è obiettivo tipico delle organizzazioni criminali “siano esse di tipo mafioso o politico affaristico”, cioè “disarticolare l’organizzazione amministrativa, neutralizzandone di fatto qualunque tipo di attività di prevenzione e controllo”.
Questo è quanto successo a Roma, ma che – lascia intuire la relazione – potrebbe succedere anche altrove. Per questo, dicono dalla commissione parlamentare “continuare a pensare che oggi le mafie siano ancora Cosa Nostra, la ‘ndrangheta e la camorra, con l’aggiunta di qualche organizzazione nigeriana, albanese o cinese, sarebbe un errore grave, che impedirebbe di comprendere in tempo, prima ancora che nelle aule giudiziarie, l’evoluzione dei sistemi criminali, anche di quelli tradizionali, la loro adattabilità e il mimetismo con cui sanno stare nel nostro tempo”.
Nel corso degli ultimi anni, le inchieste hanno mostrato un volto sempre più sofisticato delle mafie storiche, in grado di relazionarsi tra loro, ma anche di interloquire anche con sistemi più complessi, criminali e non, che hanno permesso loro di ingigantire il raggio di intervento ed interessi.
E forse anche per questo, la commissione sottolinea che “continuare a concentrarsi sulle mafie con la lupara, ignorando la modernità con cui la criminalità organizzata cambia metodi e modi, significa sì perseguire le mafie storiche, ma anche fare crescere silenziosamente, accanto ad esse, le mafie nuove”.
Un appello che i parlamentari ormai uscenti sembrano fare alla cittadinanza, alla politica, alla pubblica amministrazione, ma forse, soprattutto, ai giudici romani.