Nel primo albo di Asterix, ambientato nel 50 avanti Cristo, il legionario-spia Caligula Minus ammira il fabbro Automatix forgiare metalli a mani nude, grazie alla pozione magica con cui gli irriducibili Galli di un piccolo villaggio dell’Armorica resistono agli assalti delle centurie romane. Duemila anni dopo, s’installano molti pi robot in Italia (6.500 nel solo 2016, fonte Ifr) che in Francia (4.200), eppure il nostro tessuto produttivo a sembrare impotente a resistere alle incursioni che vengono da Oltralpe.
Non sorprende che l’annuncio che Francia e Italia stiano negoziando un trattato di cooperazione susciti grande interesse (molto pi da noi a onor del vero, dato che i media gallici se ne sono per il momento olimpicamente disinteressati). Al di l degli aspetti politici, che ovviamente sono i pi sostanziali, traspare la speranza che, con questo gesto magnanimo, Emmanuel Macron intenda cooperare sul fronte industriale su basi paritarie, allontanando i timori che l’Italia sia condannata a un ruolo sussidiario e ancillare.
In effetti le relazioni sono abbastanza squilibrate: i lavoratori italiani con un datore di lavoro francese nel 2015 sono quasi 254mila (per l’Istat, meno per l’Insee), ma in ogni caso molti di pi dei francesi che lavorano per un padrone italiano (88mila, pi per l’Insee). Alla Francia corrisponde pi di un quinto dell’occupazione estera in Italia, al Belpaese meno di un ventesimo di quella estera in Francia. Paradossalmente, la Francia pesa molto di pi nell’occupazione internazionale del capitalismo italiano (4,9%) che l’Italia per il capitalismo gallois (3,6%).Spiega questa asimmetria il grado d’internazionalizzazione molto pi elevato dell’economia francese. Sia passivo (il 12% dei salariati lavora per multinazionali estere, 1,9 milioni di persone, rispetto al 7,7% italiano, per 1,3 milioni di salariati), sia attivo (sono 5,5 milioni le persone nel mondo che lavorano per una multinazionale francese, per un fatturato complessivo di 1.248 miliardi di euro, quando le cifre corrispondenti per l’Italia sono 1,8 milioni e 544 miliardi di euro).
Un’altra causa la paucit delle grandi imprese italiane: sono otto tra le Fortune 500, mentre ci sono 29 multinazionali francesi. Magari gioca anche il profilo pi globale del top management e degli amministratori in Francia (anche se paradossalmente in Italia sono francesi gli a.d. di due delle grandi imprese finanziarie).Invece, come ha ben spiegato Roberto Perotti su lavoce.info, le ipotesi complottistiche peccano, come minimo, di poca dimestichezza con i principi fondamentali dell’economia politica. Oltretutto, che la spiegazione non risieda nel protezionismo lo dimostra il commercio bilaterale, dove l’Italia registra un avanzo (di 3,1 miliardi di euro nel primo semestre 2017, in crescita da 2,8 miliardi di euro nel semestre precedente). Varr la pena guardare pi nel dettaglio l’import-export dei gruppi francesi in Italia e italiani in Francia per capire il loro rispettivo contributo al commercio bilaterale. Immediato pensare a maisons come Ysl, Chanel, Vuitton e Dior che vendono a Parigi (e altrove) le scarpe Made in Riviera del Brenta.Stabilito che l’apertura agli investimenti esteri per l’Italia un bene da preservare, soprattutto perch di rendite di posizione il nostro paese gi abbonda e quindi preservare la concorrenza vale di per s, c’ sempre spazio per garantire maggiore reciprocit.
Come gi sostenuto su queste colonne a luglio, la vicenda Fincantieri-Stx paradossale: l’Eliseo sostiene con determinazione l’opportunit di una politica industriale continentale, per poi metterci il becco quando un gruppo europeo vuole consolidare un settore importante come la cantieristica. Va dato atto al governo Gentiloni di essersi mosso bene per arginare questo rigurgito di nazionalismo, anche se in termini di sinergie la soluzione appare meno efficace di quanto inizialmente proposto dal gruppo triestino. Perch non valga per i nostri imprenditori in Francia il commento di Chateaubriand – paesi incantati dove vi accoglie il nulla sono aridi – benvenuto pertanto il Trattato del Quirinale se serve a rafforzare la fiducia reciproca e promuovere interessi comuni, per esempio iniziative (ovviamente con la Germania e altri partner europei) nei confronti della Cina, perch a liberi investimenti delle multinazionali rosse in Europa corrispondano equivalenti possibilit nel Regno di Mezzo. Solo esprimendosi con coesione, coerenza e costanza i leaders europei possono fare gli interessi delle imprese e dei lavoratori europei.Resta che la propriet delle grandi imprese italiane questione troppo importante per associarla solo a casi estremi come la Cina comunista.
In un mondo in cui esiste una concorrenza feroce per le sedi delle grandi multinazionali, c’ troppa leggerezza sul tema. Si celebrano come successi nazionali vicende che di tricolore hanno poco: Luxottica (il cui proprietario ormai maggiore azionista di una societ francese che accorpa l’italiana), Ferrero (una societ lussemburghese di propriet di una famiglia imprenditoriale piemontese), Ynap (che ormai sar una filiale, ancorch importante, di un gruppo svizzero propriet di una dinastia sudafricana). Studiare seriamente le conseguenze delle acquisizioni per disegnare politiche virtuose e definire l’interesse nazionale nelle trattative intergovernative, anche con paesi amici come la Francia: ecco un altro bel tema da affidare al Consiglio nazionale della produttivit, quando finalmente verr istituito anche in Italia, verosimilmente ultima in Europa.
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