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Lo strabismo della riforma fiscale Usa: il problema non sono le tasse, ma i mancati investimenti delle imprese

Dic 24, 2017

Le aziende sono cariche di liquidità, anche grazie al costo del denaro a livelli stracciati. Ma se i debiti sono cresciuti, gli investimenti produttivi sono rimasti al palo. Ed è un grave problema per il futuro

di MAURIZIO RICCI

ROMA – Il varo della riforma fiscale americana, con il drastico taglio delle tasse sulle imprese, ha prevedibilmente stimolato l’ansia da imitazione, anche al di qua dell’Atlantico. Sgravare i profitti, assicurano gli autori della riforma Usa, favorirà gli investimenti, l’occupazione, i salari. Un toccasana, in un momento in cui la ripresa – non solo dove è debole, come in Italia, ma anche dove è più robusta – riesce a manifestarsi solo in forma asfittica e precaria, se confrontata con i recuperi dalle crisi dei decenni passati. Ma il toccasana è assolutamente immaginario: l’esperienza storica degli ultimi 30 anni dimostra che tagliare le tasse alle imprese – anzi, più in generale mettere più soldi nelle loro tasche – non garantisce affatto un rilancio degli investimenti.

Infatti, non avevano bisogno di un salvagente fiscale. Dall’inizio degli anni 2000, i soldi rimasti nelle casse delle aziende Usa, anche dopo aver pagato le tasse, sono raddoppiati: dal 5 al 10 per cento del Pil. Non male, per imprese che sarebbero strangolate dal fisco. E gli investimenti? Non si è mossa una foglia: la quota degli investimenti complessivi rispetto al totale dell’economia è rimasta invariata e, anzi, osserva l’Ocse – l’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati – il tasso di investimenti netti, ovvero quelli in più, rispetto al semplice rimpiazzo dei

macchinari già esistenti, fra il 2007 e il 2016 si è ridotto ad un terzo. Anche più immediato il messaggio che viene dalla Gran Bretagna: l’aliquota inglese per le tasse sulle imprese è scesa in questi anni dal 30 al 19 per cento. Ma il tasso di investimenti netti, rileva il Financial Times si è dimezzato.

Eppure, gli investimenti sono la chiave del futuro sviluppo. Ma rimangono ancora sotto i livelli pre 2008 e le proiezioni al 2019 che fa l’Ocse indicano un modesto adeguamento. Le imprese dell’Occidente investono meno, anche se gli sviluppi della tecnologia deprezzano più rapidamente il capitale. Il risultato è che, negli ultimi anni, anche la Germania ha dimezzato il tasso di investimenti netti. Per l’Italia, è un crollo: fra mancati investimenti in assoluto e mancati adeguamenti, il tasso di investimenti netti è sotto zero, il peggior risultato del G7, e il tasso rimarrà sotto zero anche nel 2019.

Non è un problema di soldi. Anche dove non ci sono state riforme fiscali, le imprese hanno goduto, in questi anni, in America come in Europa, di liquidità abbondante, grazie ai tassi di interesse stracciati. E, infatti, si sono indebitate alla grande. Rispetto al 1995, il debito delle imprese Usa è più che triplicato, quello delle aziende europee (finanza esclusa) è più che raddoppiato. Ma lo stock di capitale produttivo, nello stesso periodo, è aumentato assai meno.

Questo gap fra debiti e investimenti preoccupa l’Ocse: “Alti livelli di debito compromettono la capacità delle aziende di ottenere nuovo credito per finanziare investimenti produttivi”. Non solo: “imprese superindebitate tendono a perdere dinamismo, spesso non riescono neanche a investire il minimo per restare competitive e finiscono per diventare imprese-zombie”. Fenomeno che l’Italia conosce benissimo, anche se, invece che zombie, noi le definiamo “decotte”. Ma perché le imprese hanno scelto di correre questi rischi? Cosa hanno fatto dei soldi presi a prestito? La risposta che si danno gli economisti dell’Ocse la dice lunga sulle scelte finanziarie delle imprese delle economie avanzate. “Potrebbero finanziare gli investimenti anche senza indebitarsi, ma non lo fanno” diceva già un rapporto del 2016. Le imprese d’Occidente spendono infatti il 60 per cento dei soldi disponibili per gli investimenti distribuendo dividendi e riacquistando azioni proprie. In buona sostanza, subito nelle tasche degli azionisti, piuttosto che reinvestito nell’azienda. Ci sono buone probabilità che finiscano così anche i risparmi di un taglio delle tasse.

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