Dal primo gennaio 2026 l’Italia dell’asfalto si sveglierà un po’ più cara. Non di colpo, non con uno strappo, ma con quel rincaro silenzioso che arriva sempre quando nessuno ha voglia di fare conti: l’1,5% sui pedaggi di gran parte delle autostrade italiane. Una percentuale che sembra piccola, quasi educata, ma che moltiplicata per milioni di viaggi e abitudini quotidiane finisce per pesare. Eccome se pesa.
È l’adeguamento tariffario legato all’indice di inflazione programmata per il 2026. Una formula tecnica, burocratica, che però ha effetti molto concreti: al casello si pagherà di più. L’aumento riguarda le concessionarie per le quali è in corso l’aggiornamento dei piani economico-finanziari, quei documenti che regolano il delicato equilibrio tra Stato e gestori privati. Tradotto: per molti automobilisti il nuovo anno inizierà con qualche centesimo in più a ogni passaggio.
Alcune autostrade saranno escluse
Non per tutti, però. Restano fuori dall’aumento alcune tratte simboliche: niente rincari per Concessioni del Tirreno (A10 e A12), per Ivrea-Torino-Piacenza (A5 e A21) e per la Strada dei Parchi A24-A25, l’asse che collega Roma all’Abruzzo. Un’eccezione prevista dagli atti convenzionali ancora in vigore, che fa emergere un’Italia autostradale a macchia di leopardo, dove non tutte le corsie seguono la stessa direzione.
C’è poi chi corre più veloce degli altri. Sulla Salerno-Pompei-Napoli scatterà un aumento dell’1,925%, mentre l’Autostrada del Brennero vedrà un rincaro dell’1,46%. In questo caso il dettaglio è politico prima ancora che tecnico: la concessione è scaduta e il riaffidamento è ancora in corso. Una situazione sospesa, che però non congela le tariffe.
Inevitabili le polemiche di rito
Ed è proprio sul verbo “congelare” che si gioca la polemica. Il ministero delle Infrastrutture, guidato da Matteo Salvini, rivendica di aver tentato di bloccare gli aumenti, di aver provato a tenere i pedaggi fermi almeno fino alla definizione dei nuovi piani economico-finanziari. Un tentativo naufragato contro il muro della Corte Costituzionale. Una sentenza contraria ha di fatto tolto margini di manovra al governo, consegnando la decisione finale all’Autorità di regolazione dei trasporti.
L’Art ha fatto quello che doveva fare: applicare le regole. E le regole dicono che l’adeguamento tariffario per il 2026 è pari all’1,5%. Punto. Su questo, spiegano dal ministero, “non è più possibile intervenire”. La politica alza le mani, la tecnica va avanti.
L’indice di inflazione: cos’è
Ma cos’è davvero questo indice di inflazione programmata che decide quanto paghiamo al casello? È un numero scritto in anticipo dal ministero dell’Economia, una previsione su quanto dovrebbero crescere i prezzi al consumo in un determinato anno. Per il 2026 è stato fissato all’1,5%. Non è l’inflazione reale, quella misurata dall’Istat quando i giochi sono fatti, ma una bussola usata per orientare aumenti e contratti pubblici. Un obiettivo, più che una fotografia.
Dentro quelle cifre ci finiscono anche i pedaggi autostradali, perché le convenzioni tra Stato e concessionari lo prevedono. Sono contratti veri e propri, firmati nero su bianco, che legano la gestione delle autostrade a meccanismi automatici di aggiornamento. Nessun colpo di scena, nessuna sorpresa: solo l’applicazione di ciò che era già scritto.
Eppure, ogni aumento racconta qualcosa di più. Racconta di un Paese che si muove molto, che vive di strade e collegamenti, e che ogni anno deve fare i conti con il costo della mobilità. Racconta di un equilibrio fragile tra interesse pubblico e sostenibilità economica. E racconta anche di come, spesso, le decisioni più impattanti arrivino senza clamore, infilate tra una norma e una percentuale.