Siamo a Natale e, puntualmente, ricorrono i discorsi sulla riscoperta dei “nostri” valori, delle tradizioni, insomma delle origini della nostra identità e delle radici. Riscopriamole, dunque, queste radici, guardando alle nostre vere origini remote. Il punto di partenza è un insieme di vincoli empirici che qualsiasi ricostruzione deve rispettare. Questi vincoli provengono da ambiti diversi e indipendenti – paleontologia, genetica delle popolazioni, genomica antica, paleoclima – e convergono su un quadro che non può più essere ridotto a una narrazione lineare. La domanda non è se Homo sapiens abbia avuto origine in Africa: questa conclusione è ormai stabilizzata da una pluralità di evidenze. La questione reale riguarda il modo in cui questa origine si è articolata nel tempo, nello spazio e nelle interazioni con altre popolazioni umane.
I fossili africani datati tra circa 300 e 200 mila anni mostrano che i caratteri associati alla nostra specie non emergono come un insieme compatto. Alcuni tratti cranici, facciali e dentali compaiono precocemente, altri restano variabili per decine di migliaia di anni. Questo dato morfologico suggerisce che l’identità biologica di Homo sapiens si sia stabilizzata progressivamente per coalescenza da gruppi umani diversi, non come l’effetto istantaneo di una singola popolazione isolata. La genetica rafforza questa lettura: la profondità della diversità africana, la distribuzione dei lignaggi mitocondriali e nucleari, e i modelli di coalescenza indicano una storia fatta di sottopopolazioni parzialmente differenziate, con periodi di isolamento e periodi di riconnessione, modulati dalle oscillazioni climatiche del Pleistocene.
In questo contesto prende forma il modello pan-africano, una conseguenza logica dei dati. L’Africa del Pleistocene medio e tardo non è un ambiente statico, ma al contrario molto dinamico, in cui deserti, savane, sistemi fluviali e fasce forestali si espandono e si contraggono. Le popolazioni umane rispondono a queste trasformazioni spostandosi, frammentandosi, incontrandosi di nuovo. La morfologia e il genoma di Homo sapiens riflettono questa storia: una combinazione di continuità e discontinuità che produce, alla lunga, una linea riconoscibile, ma non priva di variabilità interna e di convoluzioni. Quando alcune di queste popolazioni africane lasciano il continente, il quadro si complica ulteriormente. L’uscita dall’Africa non è un singolo evento, né un fronte uniforme che avanza senza interazioni. I dati genetici mostrano che già le prime popolazioni sapiens che si stabiliscono in Eurasia entrano in contatto con gruppi umani residenti da tempo. Il caso dei Neanderthal è il più noto e il meglio documentato: la presenza di segmenti neandertaliani nei genomi di tutte le popolazioni non africane indica che l’ibridazione è avvenuta nelle fasi iniziali della dispersione, probabilmente in più episodi, e che quei segmenti sono stati poi rimaneggiati dalla selezione e dalla deriva – oltretutto tenendo anche conto del fatto che i Neanderthal stessi appaiono geneticamente frammentati, soprattutto alla fine della propria storia, e dunque è possibile che popolazioni di sapiens diverse abbiano ereditato porzioni di DNA neandertaliano uniche.
Negli ultimi anni, tuttavia, ancor più dell’Europa è soprattutto l’Asia a mostrare quanto questo le nostre conoscenze fossero e siano ancora incomplete. I Denisoviani, individui di una specie diversa dalla nostra e dai Neanderthal inizialmente noti solo da pochi resti in Siberia, si rivelano oggi come una popolazione – o un insieme di popolazioni – con una distribuzione geografica ampia e una storia di interazioni multiple con Homo sapiens. Le analisi genomiche indicano che l’introgressione denisoviana non è un evento unico, ma una serie di episodi distinti, che hanno coinvolto popolazioni diverse in Asia orientale, sud-orientale e in Oceania. Alcuni segnali genetici suggeriscono addirittura l’esistenza di Denisoviani profondamente divergenti tra loro, indicando una struttura interna complessa anche in queste popolazioni arcaiche. Un aspetto particolarmente istruttivo è che l’introgressione denisoviana non è distribuita in modo uniforme. In Melanesia e in alcune popolazioni papuane la quota di DNA denisoviano è elevata e ben caratterizzata; in Asia orientale e meridionale il segnale è più frammentato, ma comunque rilevabile. In alcuni casi, come per varianti genetiche associate all’adattamento all’alta quota negli altipiani tibetani, il contributo denisoviano ha avuto conseguenze fisiologiche dirette e misurabili. Questo mostra che l’ibridazione non è stata un semplice rumore di fondo, ma una componente funzionale della storia evolutiva recente di Homo sapiens in Asia.
Parallelamente, l’Africa stessa continua a fornire indizi di una complessità spesso sottovalutata. Alcune popolazioni africane moderne presentano nel loro genoma segmenti che non si spiegano facilmente con una storia che coinvolga solo Homo sapiens “classico”. Le analisi di lunghezza, frequenza e divergenza di questi segmenti indicano introgressioni antiche da popolazioni umane africane arcaiche, oggi non rappresentate da genomi antichi di riferimento. Non si tratta di un dettaglio marginale: questi segnali implicano che anche dopo l’emergere di Homo sapiens come linea riconoscibile, l’Africa sia rimasta un sistema aperto, in cui il contatto tra popolazioni molto differenziate ha continuato a lasciare profonde tracce biologiche.
Il Nordafrica occupa una posizione particolare in questo quadro. Dal punto di vista fossile, non esistono evidenze solide di una presenza neandertaliana stabile nella regione. Dal punto di vista genetico, invece, alcune popolazioni nordafricane mostrano tracce di ascendenza neandertaliana. La coerenza di questi due fatti emerge solo quando si tiene conto della lunga storia di scambi tra Africa settentrionale, Levante e bacino mediterraneo. Popolazioni eurasiatiche portatrici di DNA neandertaliano sono rientrate in Africa in diverse fasi preistoriche e storiche, introducendo quei segmenti in modo secondario. Questo fenomeno è distinto, sia per origine sia per cronologia, dalle introgressioni africane antiche, e non implica una storia neandertaliana autonoma del Nordafrica. Mettendo insieme tutti questi elementi, la storia delle origini di Homo sapiens appare come una sequenza di processi intrecciati. In Africa, un insieme eterogeneo di popolazioni continuamente separate e rimescolate per un lunghissimo arco di tempo genera progressivamente una linea biologica riconoscibile. Fuori dall’Africa, questa linea, non più diversa dalle linee restate in Africa di quante queste differiscano fra loro, si espande, si frammenta, entra in contatto con altre specie e incorpora parte del loro genoma. In Asia, questi incontri sono stati numerosi e differenziati, lasciando un’impronta più articolata di quanto si immaginasse solo dieci anni fa. In Africa stessa, la persistenza di linee arcaiche e i contatti con esse hanno contribuito a modellare la variabilità umana moderna.
Homo sapiens non emerge come un’entità isolata che sostituisce tutto ciò che incontra, né come il prodotto di evoluzioni regionali indipendenti. Emerge come una popolazione africana che si struttura, si espande e si trasforma attraverso interazioni ripetute, in un mondo già abitato da altri esseri umani. Cercando le nostre radici, individuiamo una massa intrecciata, non un singolo fittone; una massa che si si rimescola, in parte si estingue, si differenzia di nuovo e si ricongiunge per centinaia di migliaia di anni, non diversamente da quanto accade oggi nel nostro mondo iperconnesso. Siamo tutti migranti, e siamo tutti parte della stessa matassa di popoli, etnie, tribù e specie diverse, che gli accidenti della storia e della geografia hanno fatto incontrare e scontrare, combattere e amare.