Il dibattito sull’intelligenza artificiale che scrive trova un precedente utile nella reazione alla stampa a caratteri mobili. Quando i torchi cominciarono a operare a Venezia e in altre città europee, la risposta non fu uniforme. Alcuni studiosi considerarono la nuova tecnica un’opportunità per stabilizzare i testi, ridurre gli errori e diffondere opere difficilmente reperibili. Altri la interpretarono come un fattore di disordine. Tra questi ultimi, la voce più netta fu quella del frate domenicano Filippo de Strata, che in un appello al doge descriveva la stampa come un’attività capace di mettere in circolazione libri sbrigativi, poco controllati e moralmente discutibili. Il suo allarme riguardava soprattutto la perdita del ruolo di mediazione: testi ritenuti pericolosi, come quelli di Ovidio, diventavano improvvisamente accessibili anche a lettori che, secondo lui, non avrebbero dovuto leggerli senza guida. Il problema non era solo la novità tecnica, ma la redistribuzione del potere culturale. Nello stesso periodo si manifestavano effetti differenti. La stampa ridusse la rarità del libro e modificò le condizioni della lettura. Un pubblico più vasto accedeva ai testi perché erano più numerosi, meno costosi e più facili da reperire. La lettura divenne un’attività più frequente e più varia. Il lettore non era necessariamente meglio formato, ma aveva molte più occasioni di confrontarsi con materiali diversi. Le competenze critiche si svilupparono come conseguenza della nuova abbondanza, non come un progetto intenzionale. La stampa costrinse a orientarsi in un ambiente ricco di testi e rese necessarie forme di confronto e selezione che, col tempo, divennero capacità diffuse.
Il confronto con l’intelligenza artificiale funziona in parte. Anche oggi il costo della scrittura diminuisce, e strumenti automatici consentono di produrre testi articolati senza un investimento proporzionale di tempo o di competenze. Da qui deriva una parte delle preoccupazioni attuali, simili a quelle del Quattrocento: un aumento della produzione mediocre, la difficoltà di distinguere chi possiede una formazione solida da chi ne è privo, la sensazione che la tecnologia riduca la soglia d’ingresso alla scrittura in modo eccessivo. Fin qui le analogie sono evidenti e aiutano a inquadrare il fenomeno. Ma l’elemento decisivo della trasformazione in corso si colloca altrove. L’intelligenza artificiale non viene utilizzata soltanto per scrivere; viene usata per leggere al posto nostro. Molte persone non si confrontano più direttamente con i testi. Chiedono all’IA di riassumerli, di estrarne i punti essenziali, di indicarli già interpretati, di suggerire quali parti saltare e quali ritenere rilevanti. L’IA diventa così un sostituto della lettura, non un complemento. Questo comportamento modifica la posizione del lettore nella catena cognitiva, perché trasferisce alla macchina l’esame primario del materiale. Il lettore non decide dopo aver letto; decide sulla base di ciò che la macchina gli presenta. È un passaggio nuovo nella storia delle tecnologie culturali. La stampa aveva moltiplicato i lettori e li aveva immersi in una quantità di testi sufficiente a far evolvere le loro abitudini cognitive. L’IA, invece, riduce l’esposizione diretta ai testi. Invece di generare più lettori, o lettori più allenati al confronto tra fonti, crea un’interfaccia che media il contenuto prima ancora che il lettore lo incontri. La lettura, che richiede tempo e attenzione, viene sostituita da un’attività molto più breve che consiste nell’accogliere la sintesi generata dall’algoritmo. Il problema principale non è dunque solamente la qualità della scrittura prodotta dall’IA, ma la rarefazione dell’atto della lettura in una fase storica in cui sarebbe indispensabile ampliarlo. L’insieme delle competenze che rendono un lettore capace di orientarsi — selezione, confronto, interpretazione — non si sviluppa quando il testo viene attraversato da un intermediario. Nel Quattrocento la novità nel produrre i libri costrinse i lettori a espandere le proprie capacità cognitive; oggi li invita a ridurle.
Oggi, invece, la stessa tecnologia che facilita la produzione di testi diventa lo strumento con cui molti cercano di comprenderli. L’IA genera contenuti e, subito dopo, li riassume; propone percorsi abbreviati verso opere che non verranno mai lette per intero; organizza sintesi di materiali che restano invisibili nella loro forma originaria. La lettura si sposta verso la consultazione di rappresentazioni ridotte, prodotte dalla medesima infrastruttura che ha generato l’eccesso. Questo meccanismo circolare modifica entrambe le figure tradizionali della comunicazione scritta. L’autore perde centralità perché gran parte dei testi nasce da un processo automatico, o viene adattata da una macchina in base alle preferenze dell’utente. Il lettore, a sua volta, non entra più in relazione con l’opera: incontra la sua compressione. Il risultato è un ecosistema in cui la quantità dei testi alimenta la necessità di sintesi sempre più rapide, e queste sintesi, a loro volta, riducono ulteriormente il tempo dedicato alla lettura integrale. Resta alla fine, se non stiamo attenti e non salvaguardiamo l’esercizio almeno della lettura, un sistema che produce e compatta contenuti con la stessa logica, un simulacro cui deleghiamo (peraltro impropriamente) parti sempre più importanti della nostra cognizione.