AGI – “Secondo le norme internazionali ed europee, ogni 10mila donne dovrebbe esserci un posto in una casa rifugio, ma siamo ancora molto lontani. È fondamentale la governance e il monitoraggio sia della parte economica sia del funzionamento effettivo dei centri antiviolenza, servono finanziamenti a più lungo termine e un taglio deciso della burocrazia e dei passaggi che spesso strozzano le risorse e allungano inverosimilmente i tempi” questa una delle proposte che Lella Golfo, ex parlamentare e fondatrice della Fondazione Marisa Bellisario che ha fatto dell’empowerment femminile una vera e propria missione.
“Un’altra proposta è inserire il diritto delle donne ad accedere a un centro antiviolenza tra i Lep ovvero i livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi che devono essere garantiti sull’intero territorio nazionale: un aiuto economico e logistico, ma anche un segnale importante per chi è già oggi vittima di violenza in famiglia e non denuncia perché non sa dove rifugiarsi. – spiega Lella Golgo – Io stessa oramai da anni propongo di trasformare una quota degli immobili confiscati alle mafie in centri di accoglienza e formazione per le donne vittime di violenza. I fondi del Pnrr potrebbero venire in aiuto. Quando al reddito di libertà, è una misura che da anni auspicavo ed è un bene che sia stata approvata e finanziata fino al 2027 ma è evidente che il meccanismo va rivisto. La differenza tra numero di domande presentate e accolte è troppo alta, specie in alcune Regioni. Così come la suddivisione dei fondi in base al numero di donne presenti sul territorio e il requisito per le richiedenti di essere già seguite da centri antiviolenza mi sembrano meccanismi da rivedere” dice Golfo nel giorno in cui si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
I dati parlano di una donna uccisa ogni 10 minuti. Come si ferma questa scia di violenza?
“Ogni 25 novembre, ormai da ventisei anni, ci ritroviamo a scrivere di violenza e a cercare di capire come. Come fermare l’emorragia, come intervenire, quali strumenti adottare. La lezione del padre di Giulia è forse la più importante: l’odio, lo scontro, le accuse reciproche ci allontano dall’obiettivo. La cultura non si combatte, anzi le armi la esacerbano, la cultura si cambia e un fenomeno complesso e, questo sì, trasversale a ogni ambiente, contesto, classe anagrafica e sociale come la violenza di genere può esser vinta solo grazie a una grande, stretta, sinergica alleanza tra Stato, società civile, imprese, associazioni. Da soli, gli uni contro gli altri armati, non si va da nessuna parte. – prosegue – Le istituzioni ci sono e sarebbe un torto negarlo. Per la prima volta è nata una Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e su ogni forma di violenza di genere che sta lavorando – io stessa sono stata chiamata in audizione – per arrivare alla redazione di un testo unico perché i provvedimenti (bipartisan) approvati in questi anni sono così tanti che la Corte di Cassazione ha parlato di “un vero e proprio arcipelago nel quale non sempre è facile orientarsi”.
Le misure a tutela delle donne non bastano?
“Garantire la loro reale efficacia ed efficienza è il primo e più importante obiettivo. Certo, interroga il malfunzionamento di uno strumento salutato come risolutivo, il braccialetto elettronico. Sono più di 10mila quelli attivi, raddoppiati nell’ultimo anno per l’inasprimento delle norme. Eppure solo tra settembre e ottobre tre donne sono state uccise nonostante i loro aggressori lo indossassero e il sindacato dei carabinieri parla di 20mila falsi allarmi che fanno correre le pattuglie dove non serve e mettono le donne in allerta perenne. Parliamo di Intelligenza Artificiale, di transizione digitale e non riusciamo a far funzionare un semplice salva vita… Ma non basta questo, a mio avviso, per trasformare una giornata simbolo e importante in un agone politico di accuse e recriminazioni. Non serve e non paga”.
La violenza di genere può esser vinta solo grazie a una grande, stretta, sinergica alleanza tra Stato, società civile, imprese, associazioni
“Se fin qui l’azione del Parlamento ha cercato di dare compimento alla protezione e punizione indicate dalla Convenzione di Istanbul, l’azione dirimente sono le altre due P cui la convenzione fa riferimento: Prevenzione e Politiche integrate e coordinate. Prevenire la violenza di genere significa incidere su tutte le cause, materiali e culturali, che la originano. E dunque abbattere gli stereotipi, combattere le discriminazioni, trasformare in profondità i rapporti di potere tra i generi, scardinare un sistema che delegittima le donne a livello politico, economico, sociale. Un’azione totale, impegnativa che ci chiama in causa tutti, nessuno escluso”.
Infine la presidente della Fondazione Bellisario lancia un appello: “Facciamo tutti – istituzioni, società civile, media, uomini e donne – lo sforzo di parlare di violenza senza evocare unicamente il femminicidio. Quello è l’epilogo, ma solo occupandoci di tutto quello che c’è dietro troveremo il bandolo della matassa. Parliamo di violenza economica, subdola e terribile, con la quale si alzano muri per tenere prigioniera una donna in una relazione, soprattutto in presenza di figli. Parliamo di violenza psicologica, sottile e tagliente come lama di coltello, e di quei lividi che magari non sfoceranno mai in un delitto ma che distruggono quotidianamente la vita di troppe donne. Non leghiamoci alle parole – patriarcato sì o no – ma alla sostanza”.
Come si demoliscono stereotipi tanto insulsi quanto diffusi e radicati?
“È come scalare l’Everest e per questo l’impegno deve essere ancora più capillare, partire da scuole e famiglie, coinvolgere studenti di ogni ordine e grado, sin dalla prima infanzia. All’indomani della scomparsa di Giulia si era parlato di rendere l’educazione alle relazioni obbligatoria nelle scuole e sembra che poco o niente si sia fatto. Un tema che il governo deve riprendere in mano, subito. Ma smettiamola di trovare il colpevole nell’altro. La formazione a scuola, così come le campagne di sensibilizzazione – e che non siano episodiche – sono importanti ma non possono bastare. Perché se poi quegli stessi ragazzi ai quali cerchiamo di insegnare i principi di parità e rispetto hanno a casa l’esempio di una madre che è stata costretta a lasciare il lavoro al loro arrivo, che è la sola responsabile del lavoro di cura, che non ha un conto corrente e vive in una posizione di subordinazione e dipendenza, allora tutto sarà inutile. Gli stereotipi si demoliscono con la realtà quotidiana di una società in cui il lavoro di una donna è importante, dignitoso, remunerato quanto quello di un uomo. Occupazione e leadership femminili, parità salariale, role model sono i primi e più importanti strumenti per prevenire la violenza. Lo diciamo da anni e continueremo a farlo”.