Bere un bicchiere di vino e compiacersi della vertigine generata dai primi sorsi, mangiare quando si ha fame e dormire quando si ha sonno. Osservare un’opera d’arte che ci piace, fare sesso, socializzare. Superare un esame. Ecco alcuni esempi di azioni o esperienze piacevoli, cioè di momenti in cui nel corpo vengono liberate delle sostanze che ci informano che ciò che stiamo vivendo è qualcosa di tanto gratificante da, possibilità permettendo, ripetere. Voluptas est bonum summum vitae, insomma. Quando otteniamo una gratificazione, di qualsiasi genere essa sia, il nostro organismo la percepisce come una ricompensa. E’ questa, infatti, la parola inglese utilizzata dagli addetti ai lavori: reward. Niente di più semplice: ci ricordiamo molto bene come ottenere ciò che ci ha condotto a sperimentare una sensazione di piacere così come ci ricordiamo molto bene del contrario, cioè come evitare ciò che ci ha condotto a sperimentare sensazioni spiacevoli o dolorose. Chiaramente, al di là dei bisogni primari, ciascuno percepisce come piacevoli cose, abitudini e persone differenti. Quindi, in base alla psicologia di ciascuno, il senso di cosa è considerato piacere cambia. Ma non corriamo troppo.
L’importanza della dopamina: non è coinvolta nell’esperienza edonistica in sé, ma gioca un ruolo nell’attribuzione di significati positivi agli stimoli
Seppure la sensazione di piacere generata quando si mangia un bel cucchiaino di nutella e quella provata quando si trovano cinquanta euro per terra siano entrambe esperienze positive e gratificanti, esiste tra loro una fondamentale differenza. Una differenza che corre lungo il binomio natura-cultura. Infatti, quando si mangia qualcosa di zuccherato si va ad agire su un parametro corporeo innato, cioè sulla regolazione del glucosio che si verifica anche se nessuno ci ha mai parlato del suo funzionamento. In questo caso si parla di comportamenti omeostatici, vale a dire comportamenti che mirano a ristabilire un equilibrio fisiologico interno. E la struttura cerebrale a cui fare riferimento in questo caso è l’ipotalamo. Al contrario, il godimento che si prova quando si trovano dei soldi a terra si verifica perché si è imparato il valore del denaro grazie a un apprendimento sociale, cioè grazie a qualcosa che non si conoscerebbe se qualcuno non ce ne avesse parlato. In questo caso si parla di comportamenti non omeostatici, cioè di comportamenti, appunto, appresi, mediati da strutture cerebrali note come gangli della base. E negli esseri umani il comportamento legato alla ricerca di stimoli piacevoli è un comportamento non omeostatico; come dire, non ricerchiamo il piacere perché ne abbiamo un innato bisogno ma perché abbiamo imparato quanto sia bello sperimentarlo.
E’ importante sottolineare che le sostanze rilasciate dal corpo e i meccanismi neurali coinvolti in questi due diversi tipi di piacere coincidono solo in parte, ma entrambi fanno ricorso a una sostanza che sta diventando sempre più nota nella cultura pop: la dopamina. Contrariamente a quello che si pensa però questo neurotrasmettitore non è coinvolto direttamente nell’esperienza edonistica in sé, ma gioca un ruolo nell’attribuzione di significati positivi agli stimoli e serve a sostenere la motivazione necessaria per ottenerli. Quando si portano a termine comportamenti con fini omeostatici, come dormire o ripararsi dal freddo, la dopamina aumenta informandoci che il comportamento che si è messo in atto è proprio quello di cui si aveva bisogno, avviene cioè quello che nelle neuroscienze viene definito un “rinforzo primario”. Quando invece si mette in atto un comportamento non omeostatico, la dopamina serve per poter associare ciò che abbiamo imparato, e che ci è piaciuto, a uno stato d’animo positivo. Ad esempio: normalmente dopo aver visto una persona amica o amata si ha un rilascio di dopamina, ma se per alcune volte prima di vederla si sente un trillo, questi due stimoli si assoceranno, tanto che dopo un po’ il rilascio di dopamina avverrà a seguito del trillo e non a seguito della vista della persona. Et voilà, ecco uno dei modi in cui due stimoli possono essere appaiati grazie alla dopamina. Nel corso della vita qualcosa di simile accade anche in altre situazioni: iniziare uno sport e col tempo capire che è gratificante, collezionare oggetti e imparare ad amare il collezionismo, o iniziare a mangiare anche se non si ha fame, ma solo per noia. E il piacere che deriva da questi comportamenti non omeostatici prende il nome di “rinforzo secondario”.
Oltre all’aspetto edonistico in sé, mediato soprattutto da sostanze come le encefaline e le endorfine, e quello relativo all’associazione tra stimoli, mediato invece dalla dopamina, esiste un secondo aspetto nel quale è coinvolta quest’ultima sostanza: l’aspetto motivazionale. Quanto si è disposti a rischiare per ottenere un rinforzo primario o secondario? Per capirlo, un animale, solitamente un topo o un ratto, viene messo in una scatola nella quale si trova una leva che, se premuta, rilascia una sostanza gratificante, come lo zucchero o una sostanza stupefacente. Inizialmente l’animale deve premere la leva solo una volta per ricevere la ricompensa, ma con il passare del tempo il numero di pressioni necessarie per ottenere la sostanza aumenta. Ad un certo punto però la richiesta diventa eccessiva e l’animale smette di azionare la leva raggiungendo così il cosiddetto breakpoint. Più in là nel tempo si colloca il breakpoint, maggiore sarà la forza gratificante della sostanza e la motivazione del soggetto per ottenerla. Infatti, più dopamina si troverà nei loro cervelli (nei gangli della base), maggiore sarà stata la motivazione dei topolini di ottenere la sostanza.
Seppure, come abbiamo visto, la radice psicobiologica del piacere sia sorretta da sostanze e da strutture cerebrali specifiche, esistono condizioni di benessere che non riescono a essere facilmente incasellate all’interno di questi paradigmi. Una di queste è la cosiddetta flow experience, l’esperienza di flusso. Colui che la formulò è stato uno psicologo ungaro-americano che ha insegnato all’Università di Chicago: Mihaly Csikszentmihalyi. Il suo nome è per noi tanto impronunciabile quanto interessante è la sua teoria. In pratica, avere un’esperienza di flusso significa essere tanto coinvolti e trasportati da ciò che si sta facendo da dimenticarsi di sé stessi e dello scorrere del tempo. Una condizione che formulò dopo aver osservato artisti che trascorrevano ore a dipingere e a scolpire totalmente assorbiti dal loro lavoro. Ma come si raggiunge? Secondo questa teoria il senso di apatia si manifesta quando si è impegnati in un compito poco sfidante avendo abilità limitate. Diversamente, essere impegnati in un compito molto sfidante e possedere un basso livello di capacità genera ansia. Quando invece il livello di competenze personali è alto e il livello di sfida basso, ci si sente rilassati. L’esperienza di flusso, però, si raggiunge solo quando sia la sfida che le abilità sono alte. L’importante è che il compito sia abbastanza complesso da richiedere concentrazione e che le capacità personali siano abbastanza sviluppate da generare un senso di controllo e di coinvolgimento. In sostanza, ciò che C. ha messo in risalto grazie al suo lavoro è il fatto che le persone sono più felici quando sono coinvolte in un’attività che le mette pienamente in gioco. Il piacere, dunque, deriverebbe non da una mente libera di vagare ma da una tanto impegnata da essere trasportata nel flusso. A ben pensarci, chi non vorrebbe trovarcisi più tempo possibile?
Volendo includere con il termine piacere anche il più ampio concetto di realizzazione personale, è possibile parlare del pensiero proposto da Edward Deci e Richard Ryan, due psicologi della University of Rochester. Secondo questi autori il benessere deriverebbe dalla soddisfazione di tre bisogni di base: autonomia, competenza e relazione. In sostanza, per stare bene sarebbe necessaria la sensazione di agire in base ai propri valori e interessi, di percepirsi in grado di affrontare le sfide a cui questi conducono e di farlo riuscendo a rimanere in connessione con gli altri. Però, per riuscire a maneggiare agevolmente questi tre bisogni di base, ecco che fa di nuovo capolino un aspetto che le neuroscienze del comportamento considerano uno degli ingredienti del piacere: la motivazione. Sarebbe, infatti, la necessità di essere autonomi, competenti e in relazione a promuovere la motivazione necessaria per soddisfarli. Però, secondi gli autori, è importante che tale motivazione nasca da un desiderio di miglioramento personale, e non basarsi invece su fattori esterni come la ricerca di premi o di riconoscimenti fini a sé stessi.
Tra le espressioni più nobili della ricerca del piacere potrebbe collocarsi senza problemi la ricerca della bellezza. Infatti, a chi mai verrebbe in mente di considerare sgradita la vista di un’opera d’arte pittorica o architettonica, di un panorama che cattura lo sguardo o di una persona esteticamente attraente? Nel quarto libro pubblicato da Adelphi per la collana Animalia, si trova un saggio scritto da Richard O. Prum, professore di ornitologia e curatore capo del Peabody Museum presso l’Università di Yale, intitolato “L’evoluzione della bellezza” nel quale l’autore non teme di rintracciare nella bellezza il motore della teoria dell’evoluzione. Prum sostiene che la bellezza non serve esclusivamente a “fornire informazioni oneste e precise sulla qualità e la condizione fisica dei potenziali partner” come viene comunemente intesa quando si parla di selezione naturale. Secondo la prospettiva offerta in questo libro, infatti, la cerva non percepirebbe come bello e attraente il palco (comunemente chiamato corna) del maschio solo in quanto prova di buona salute o di una migliore possibilità di difenderla dai predatori. E questo perché secondo l’autore (come, a suo dire, per lo stesso Darwin), persino negli animali si sviluppano preferenze riguardo il partner che tengono in considerazione il semplice valore estetico, senza che questo sia necessariamente la controparte di caratteristiche strettamente collegate alla sopravvivenza come la forza o la salute. Sarebbero dunque le femmine che, mettendo continuamente in pratica la scelta dei partner su base estetica, promuoverebbero la bellezza dando vita alla “straordinaria varietà di ornamenti che osserviamo nel mondo animale”. Infatti, secondo Prum “ogniqualvolta si presenta l’opportunità di esercitare delle preferenze sessuali attraverso la scelta di un partner, ha luogo un fenomeno evolutivo nuovo ed eminentemente estetico. Tutti gli organismi, siano essi gamberetti o cigni, falene o esseri umani, possono sviluppare ornamenti arbitrari e inutili in modo del tutto indipendente dalle (e talvolta in opposizione alle) forze della selezione naturale”. Incredibile.
Dunque, Prum sostiene che sarebbero le femmine le promotrici della bellezza delle varie specie, scegliendo prima gli esemplari maschili più belli, poi partorendoli e tramandando queste preferenze anche alle figlie. Costringendo così i maschi a sbizzarrirsi pur di essere notati e di risultare attraenti; imponendo loro di mettere su, appunto, un ampio palco, un piumaggio vistoso e brillante o della peluria che crescendo sul viso cattura l’attenzione, proprio come la barba umana maschile. “In sostanza, affermava Darwin, la bellezza si evolve principalmente perché procura piacere all’osservatore”. Chi mai l’avrebbe detto che un aspetto come la bellezza, qualità sì ricercata ma spesso anche considerata esclusiva se non addirittura accessoria, potesse ricoprire un ruolo tanto importante. Forse è per questo che la ricerchiamo tanto, forse è questo il motivo per cui ci procura piacere. E seppure non sia certo se alla fine la bellezza salverà davvero il mondo, stando a quanto ci racconta Prum parrebbe essere un ingrediente fondamentale nell’evoluzione dei suoi abitanti.