AGI – Le istanze di revisione del processo sulla strage di Erba sono state respinte perchè non c’era nessuna nuova prova e nemmeno ci fu un “complotto”, come adombrato dai ricorrenti, ai danni degli imputati. Lo scrivono i giudici della Corte d’Appello di Brescia nelle motivazioni lette dall’AGI depositate oggi alla sentenza con la quale il 10 luglio scorso hanno respinto le istanze di revisione presentate dai legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi e dall’allora pg di Milano Cuno Tarfusser. Difesa e pg chiedevano di riaprire il caso chiuso con la sentenza all’ergastolo per avere ucciso l’11 dicembre 2006 a Erba Raffaella Castagna, sua madre Paola Galli, suo figlio Youssef di due anni e la vicina di casa Valeria Cherubini.
“L’istanza è manifestamente inammissibile, esaurendosi nella ripetizione, alla luce delle nuove acquisizioni (che, come si è visto, tali non sono) e nella prospettiva della falsità della prova, di doglianze già sviluppate nei precedenti gradi di giudizio e in sede d’incidente di esecuzione” è la conclusione dei giudici. E nemmeno ci fu una sorta di “complotto” ai danni dei coniugi come, secondo questa lettura, emergerebbe dalle richieste di revisione.
“La falsità delle prove (rectius: del loro iter formativo), così come i presunti fatti-reato che avrebbero inquinato il processo, non discenderebbe da nuove prove di segno opposto a quelle considerate in sede di cognizione ma da una sorta di complotto ai danni di Romano e della Bazzi, che avrebbe condotto gli inquirenti a costruire a tavolino la traccia ematica rinvenuta sul battitacco della Seat Arosa e a insufflare in modo surrettizio (occultando di averlo sentito, cancellando le relative intercettazioni e falsificando i verbali dei colloqui registrati) Mario Frigerio, per poi costringere gli odierni ricorrenti a confessare, anche in questo caso sopprimendo conversazioni oggetto d’intercettazione che avrebbero potuto dimostrarne l’innocenza”.
“Frigerio è stato un lucido testimone”
La testimonianza che conta di Mario Frigerio, considerata uno dei pilastri della sentenza di condanna di Olindo e Rosa, è quella da lui resa nel dibattimento. I giudici della Corte d’Appello di Brescia lo scrivono nelle motivazioni al ‘no’ alla revisione chiesta dalla difesa e dal pm secondo i quali il carabiniere Gallorini avrebbe ‘suggerito’ il nome di Olindo al vicino di casa quando lo ascolto’ dopo il delitto. “Il dato dirimente con cui la difesa non si confronta è che la prova che ha concorso a formare il giudicato di condanna non è costituita dalla deposizione o dall’annotazione di Gallorini ma dalla testimonianza resa in dibattimento da Frigerio” è l’argomento della Corte d’Appello bresciana secondo la quale le dichiarazioni dell’uomo non furono annebbiate da un’amnesia anterograda, cioè la difficoltà a ricordare eventi successivi a un evento traumatico. “Il tema sulla capacità a testimoniare di Frigerio – tagliano corto – è stato ampiamente sviscerato nei precedenti di gradi di giudizio” e quindi non può costituire una prova nuova.
“Tarfusser non poteva fare l’istanza di revisione”
La richiesta di revisione presentata dall’allora pg di Milano Cuno Tarfusser era “prima ancora che carente sotto il profilo della novità della prova, inammissibile per difetto di legittimazione del proponente“. Per i giudici bresciani “la richiesta di revisione è stata formulata da un sostituto procuratore generale della Corte d’appello di Milano privo di delega relativamente alla materia delle revisioni, riservata, secondo il documento organizzativo dell’ufficio, all’avvocato generale, e non assegnatario del fascicolo ed è stata depositata nella cancelleria del Procuratore Generale di Milano, che l’ha trasmessa alla Corte, evidenziando la carenza di legittimazione del proponente, disconoscendone il contenuto e chiedendo che fosse dichiarata inammissibile – è la spiegazione che rimanda alla lotta intestina tra i magistrati milanesi sul tema -. Al di là della violazione delle regole per l’assegnazione dei procedimenti, non avendo il Procuratore Generale, unico soggetto legittimato ex lege alla proposizione della richiesta, fatto propria l’istanza e avendo, anzi, affermata l’inammissibilità della stessa e la carenza di legittimazione del dottor Tarfusser, è, dunque, la stessa volontà del soggetto legittimato e che, di fatto, ha provveduto al deposito presso la cancelleria di questa Corte a non essersi formata”.
“Le interviste tv non sono prove”
Le interviste televisive non possono valere come “prova nuova” in grado di riaprire un processo perché, diversamente dal testimone escusso in giudizio, il soggetto intervistato non ha l’obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità e non assume alcun impegno in tal senso. Al contrario, è sicuramente condizionato dal mezzo e dalla pubblicità che esso garantisce e tende generalmente a compiacere l’intervistatore e a porsi in una luce favorevole, abbandonandosi a supposizioni ed esprimendo opinioni personali che non sarebbero ammesse in sede processuale”. Lo scrivono i giudici della Corte d’Appello di Brescia passando in rassegna le presunte nuove prove indicate dalla difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi, alcune delle quali riconducibili a interviste a programmi televisivi come ‘Le Iene’.
Le “nuove prove” in grado di scalfire una sentenza definitiva, spiegano, “devono avere un elevato grado di affidabilità ed essere idonee a ribaltare l’affermazione di penale responsabilità contenuta nella sentenza di cui s’invoca la revoca. La diversa valutazione tecnico-scientifica di elementi fattuali già noti, inoltre, può costituire prova nuova solo se fondata su nuove acquisizioni scientifiche, tali da fornire risultati non raggiungibili con le metodiche in precedenza disponibili e sempre che si tratti di applicazioni tecniche accreditate e condivise all’interno della comunità scientifica di riferimento – sostiene la Corte sulla base anche di pronunce della Cassazione -. Poiché una parte delle prove di cui la difesa chiede oggi l’acquisizione sono rappresentate da interviste rese a testate giornalistiche e televisive, a queste preliminari considerazioni sulla nozione di prova nuova, deve aggiungersi che la natura di documento dei supporti cartacei e audiovisivi di tali interviste non vale, ad avviso della Corte, a conferire loro il rango di prova ammissibile in sede processuale”.
“Nessun presidio, aldilà della deontologia dell’intervistatore, è previsto a tutela della genuinità e libertà delle sue risposte e della correttezza delle domande, che ben possono essere, in un’ottica di mero giornalismo investigativo, suggestive, insinuanti e insidiose – è l’affondo dei giudici -. L’argomento vale per tutte le interviste proposte dalle difese nell’istanza di revisione e nelle successive memorie, a maggior ragione per quelle a soggetti che hanno deposto nel dibattimento di primo grado, la cui testimonianza non può essere falsificata da risposte incerte o apparentemente in contrasto con quanto dichiarato nella sede processuale deputata, offerte a distanza di quasi vent’anni dai fatti e dalla testimonianza resa in primo grado, fuori da un’aula di giustizia, in contesti privi della “sacralità” propria del processo, senza obbligo di verità”.