AGI – Kamisolamin, gambiano, è in Italia da otto anni e mezzo. “Faccio la ‘guardia’ anti-taccheggio, prendo una paga in base ai turni ma mai più di mille euro al mese. Ieri sono andato, per l’ennesima volta, in un’agenzia immobiliare a cercare casa ma mi hanno detto che a uno col contratto a tempo indeterminato non la danno”. In piazza Leonardo da Vinci, nel fervore dei ragazzi che entrano ed escono dal Politecnico, sono spuntate da qualche giorno una quindicina di nuove tende dopo quelle degli studenti in rivolta contro il caro affitti e altre in solidarietà con la Palestina.
Ospitano una quarantina delle settanta persone costrette a lasciare il capannone industriale in disuso in via Fracastoro, alla periferia nord-est di Milano, dopo che l’incendio divampato la notte del 19 settembre lo ha reso inagibile. Erano riusciti a fuggire prima di restare intrappolati tra le fiamme portando via le poche cose che avevano con loro. La maggior parte degli altri, che hanno famiglia, sono stati sistemati nel dormitorio ‘Casa Jannacci’, spiegano all’AGI i rappresentanti della ‘Rete Solidale Ci Siamo’ che li aiutano, mentre un piccolo gruppo ha ricevuto ospitalità temporanea da conoscenti.
“Sono tutti lavoratori immigrati, non è corretto parlare di senza dimora come riferito dai media – chiariscono -. Anche per questo la soluzione del dormitorio non è adatta perché spesso hanno turni di notte ed esigenze non compatibili”. Passa una ragazza che distribuisce scatole coi noodles essiccati facili da ‘cucinare’ aggiungendo solo un po’ d’acqua, un’altra lascia dei materassini.
Gli studenti sono solidali con gli abitanti delle tende, si informano sulle ragioni della loro presenza e ne condividono lo spirito. La maggio parte di loro viveva negli ex bagni pubblici di epoca fascista in via Esterle da dove sono stati sgomberati nell’estate dell’anno scorso per fare posto a quella che sarà la prima moschea ‘ufficiale’ di Milano dopo che la Casa della Cultura Musulmana si era aggiudicata il bando per il vecchio edificio.
Lavorano come rider, nella logistica, nella sicurezza, nei servizi in condizioni in cui spesso non vengono rispettate le minime garanzie contrattuali salariali e normative. Racconta Keita, gambiano: “Lavoro da dieci anni in Italia e non ho mai vissuto in una casa. Lavoro in campagna, ora in Piemonte. E’ molto faticoso, prendo sei euro all’ora”.
Toumani, arrivato dal Mali otto anni fa: “Lavoro in un’azienda metalmeccanica a Trezzano Rosa, vicino a Milano. Io credo che non ci danno una casa non solo perché non abbiamo contratto a tempo indeterminato ma anche perché c’è un po’ di razzismo. Quando ci presentiamo nelle agenzie dicono subito che non danno le case ai migranti”.
Kamisolamin spiega che quando torna in questi giorni dal lavoro “non posso lavarmi, farmi una doccia, andare in bagno”. “In questi ultimi anni non siamo riusciti a trovare in affitto nel libero mercato un appartamento o una stanza in condivisione a causa dei costi sempre più elevati e delle garanzie richieste dai proprietari al momento del contratto che molti di noi, lavoratori con contratti brevi e a basso reddito, non riusciamo a dare, oltre a forme sempre più diffuse di razzismo e discriminazione che subiamo – si legge nel ‘manifesto’ che hanno scritto assieme ai cittadini italiani che li sostengono -. Per noi non è prevista una politica abitativa e sociale che sia in grado di aiutarci ad accedere a un’abitazione dignitosa, come ha evidenziato ciò che sta accadendo in questi giorni dopo l’incendio del 19 settembre, e precedentemente nel caso di via Esterle dove il Comune, dopo un confronto durato diversi mesi, ci aveva consegnato come unica soluzione un elenco di pensionati che, dopo essere stati contattati, sono risultati tutti pieni”.