AGI – I poliziotti del Sicherheitsdienst entrarono nella stanza della Questura di Fiume senza bussare alla porta del vicecommissario Giovanni Palatucci, che era al suo tavolo di lavoro. Non avevano motivo di rispettare né il grado né il ruolo, perché quel 13 settembre 1944 eseguivano un ordine di arresto delle autorità naziste conseguente la delazione di un italiano, collega del poliziotto messo adesso in manette e spinto via senza troppi complimenti. Il trentacinquenne Palatucci era un uomo delle istituzioni, che in quel lembo del territorio nazionale sulla sponda orientale dell’Adriatico era la Repubblica Sociale di Mussolini, ma era anche un uomo di fede e con un imperativo morale che non poteva piegarsi ai desideri di una dittatura. Da quel giorno il reggente della Questura di Fiume entrava nel cono d’ombra della storia passando attraverso l’inferno della persecuzione nazista, alla quale non sarebbe sopravvissuto, piegato nel corpo il 10 febbraio 1945 nel lager di Dachau.
“Giusto tra le nazioni” e “Servo di Dio”: ruolo contestato e riabilitazione
Nel dopoguerra la figura di Palatucci è stata oggetto di valutazione per la rettitudine morale e i rischi corsi nell’aiutare gli ebrei a sfuggire a persecuzioni e Shoah, poi di demolizione e poi ancora di recupero e riabilitazione, per separare la storia dall’agiografia, la documentazione dalla vulgata, l’esaltazione dal vituperio preconcetti e acritici. È stato proclamato Giusto tra le nazioni dal Museo dello Yad Vashem di Gerusalemme il 12 settembre 1990, messo sotto accusa dal Centro internazionale di studi Primo Levi di New York nel 2013, e ancora una volta riesaminate la sua esistenza e la sua opera che lo fanno ricordare con l’intitolazione di vie, piazze, scuole, parchi, luoghi della memoria, con targhe e monumenti. La Chiesa dal 2004 lo considera Servo di Dio e la Repubblica italiana nel 1995 ne ha insignito la memoria con la medaglia d’oro al merito civile. L’accusa che ne determinò l’arresto ottanta anni fa fu quella di «intelligenza col nemico»: in questo poteva rientrare di tutto, dall’aiuto agli ebrei ai contatti con la Resistenza, dalla disapplicazione delle leggi fasciste alla collaborazione con gli antifascisti e con gli Alleati, soprattutto in una realtà complessa e magmatica come quella della città di Fiume solo da venti anni italiana, prima del Regno dei Savoia e nel 1944 della Repubblica di Mussolini sotto tutela tedesca.
L’aiuto agli ebrei col rilascio di una nuova identità e l’invio in Italia
Palatucci era nato nel 1909 in un piccolo centro dell’Avellinese, Montella, e dopo la laurea in giurisprudenza era entrato nella Pubblica Sicurezza. Aveva preso la tessera del Partito fascista nel 1932, come tutti o quasi tutti all’epoca, e nel 1937 era stato mandato sull’altra sponda dell’Adriatico, nella Fiume dell’impresa dannunziana, a reggere l’Ufficio stranieri. Secondo lo zio Giuseppe Maria Palatucci, vescovo di Campagna, dopo l’emanazione delle Leggi razziali del 1938 il nipote si adoperò per lenire quella che gli pareva un’ingiustizia. Era già iniziata, per gli ebrei mitteleuropei, la ricerca di un approdo dopo l’espansione del Reich e la persecuzione, e l’Italia era una meta della nuova diaspora dell’odio. Se è difficile comprovare numericamente l’assistenza fornita ai profughi tramite nuovi documenti di identità e lo smistamento verso il campo di internamento di Campagna sotto la protezione dello zio vescovo (il quale dal 1952 si adoperò in ogni modo per vedergli riconosciuto il suo impegno umanitario), sono però reali e validate le singole testimonianze di ebrei che al poliziotto dovevano la vita. Fossero cinquemila, come convenzionalmente si trova nella pubblicistica, o probabilmente meno, poco importa. Il concetto basilare del riconoscimento di Giusto fra le nazioni, infatti, fa leva sul principio che chi salva un uomo salva l’umanità. E Palatucci salvò uomini e donne.
Tradito da un collega, aveva rifiutato un salvacondotto per sé
Con la resa incondizionata dell’8 settembre 1943 e la risurrezione del fascismo, Fiume si ritrovò in una delle due zone operative, quella adriatica, sotto diretto controllo tedesco. La caccia agli ebrei divenne sistematica come la deportazione, e molto più rischioso il sistema di fornire documenti di identità veri con generalità false. Il trait-d’union con Campagna era poi diventato del tutto impossibile. A febbraio Palatucci si vide assegnare l’incarico di questore reggente, ma non per questo il suo margine d’azione aumentò. A sua insaputa, o forse no, era infatti tenuto sotto controllo da un collega di fede fascista, per il prima e per il durante, a causa dei suoi contatti con gli Alleati. Il 13 settembre 1944 l’informativa al SD faceva scattare l’arresto e la detenzione nel carcere di Trieste. In suo favore intervenne il console svizzero Marcel Frossard de Saguy, suo amico – che in precedenza gli aveva offerto un salvacondotto che Palatucci aveva però adoperato per una donna ebrea –, per evitargli la pena di morte. Inviato ai lavori forzati a Dachau col numero di matricola 117826, Giovanni Palatucci venne prima logorato e poi stroncato dalle privazioni e dalle angherie due mesi e mezzo prima che gli Alleati alla fine della guerra liberassero il lager, il primo in assoluto aperto dai nazisti a due mesi esatti dalla vittoria di Hitler alle elezioni del 1933. Aveva solo 36 anni. Il primo riconoscimento alla sua memoria sarà nel 1955 per iniziativa dell’Unione delle comunità ebraiche italiane. La Chiesa si è interessata a questa figura di cattolico negli Anni duemila, grazie a Giovanni Paolo II, avviando un processo di canonizzazione concluso positivamente dopo quattro anni, quando già lo Stato ne aveva riconosciuto ufficialmente l'”opera di dirigente, di patriota e di cristiano”.