Nella lotta contro la diffusione della disinformazione, specialmente per mezzo di internet, uno dei dati cruciali riguarda l’efficacia delle varie misure adottate per il contrasto. Fra queste misure, una delle più utilizzate da diverse piattaforme social e da diversi distributori di contenuti è l’etichettatura dei contenuti sospetti in modo da evidenziarne l’inaffidabilità. A valle della valutazione da parte di cosiddetti “fact-checker”, volontari o professionisti che verificano l’affidabilità innanzitutto delle fonti di una certa notizia ed in secondo luogo la coerenza generale del contenuto, piattaforme come Facebook possono decidere che, invece di rimuovere un dato testo, sia meglio etichettarlo chiaramente come sospetto o fraudolento o falso.
Il razionale di questo approccio consiste nel fatto che mentre la completa rimozione di un contenuto è facilmente aggirata dalla sua ricomparsa in altre forme, l’esposizione del pubblico alla sua classificazione come falso per così dire lo “immunizzerebbe” a quel contenuto specifico, a patto, ovviamente, che il contenuto etichettato sia opportunamente diffuso.
Per la prima volta, abbiamo una verifica sperimentale di questa teoria, pubblicata dalla rivista Nature Human Behaviour. In un ampio studio condotto su volontari, i partecipanti sono stati esposti a un mix di titoli veri e falsi politicamente equilibrati. I partecipanti nel gruppo dei “trattati” hanno visto la maggior parte dei titoli falsi accompagnati da etichette di avvertimento simili a quelle utilizzate da Facebook, mentre quelli nel gruppo di controllo nessuna etichetta di avvertimento. I partecipanti hanno quindi valutato l’accuratezza di ogni titolo e hanno indicato la loro volontà di condividerlo.
Quello che si è trovato è che le etichette sono utili a diminuire in modo altamente significativo la condivisione di contenuti presentati come falsi. Si è poi ottenuto un risultato ancora più interessante: sebbene le etichette di avvertimento sono risultate più efficaci per gli individui che avevano fiducia nella categoria dei fact-checker, esse hanno tuttavia ridotto in modo coerente e significativo la fiducia e la volontà di condividere titoli falsi anche tra i partecipanti dichiaravano sfiducia nei fact-checker, persino per quei partecipanti che, in un sistema di punteggio, erano nel quartile inferiore per fiducia nei fact-checker.
La ragione di questo risultato non è spiegata dallo studio in questione: potrebbe per esempio darsi che ogni essere umano, se esposto ad un grande segnale rosso, attiva dei meccanismi inconsci di verifica e di maggior attenzione, indipendentemente da chi abbia posto quel segnale, oppure potrebbero esservi una congerie di altre ragioni, che al momento non è possibile identificare dai dati presentati.
Qualunque sia la ragione per questo calo di fiducia nei contenuti etichettati, il risultato ottenuto indica che la strategia e le sue ipotesi sottostanti sono utili a contrastare la diffusione della disinformazione. Cruciale, a questo punto, diventa la selezione dei fact-checker o, in alternativa, degli algoritmi di etichettatura: è infatti possibile immaginare come anche questo tipo di diffusione di sfiducia in un contenuto possa essere utilizzato per abbassare la credenza delle persone in notizie e dati veri, anziché falsi, se non esiste un sistema certificato e controllabile alla base dell’etichettatura stessa.
Il che, naturalmente, apre la strada a ulteriori considerazioni su come le piattaforme di diffusione e indicizzazione dei dati digitali possano garantire trasparenza e affidabilità nel processo che serve a combattere la disinformazione. Sarà interessante esaminare la risposta all’articolo appena pubblicato, tenendo d’occhio quest’ultimo quesito.