AGI – La società che l’ha licenziata pochi mesi dopo avere saputo che si sarebbe sposata ha provato a difendersi sostenendo di averla assunta “quando era già convivente, così che della sua possibile fecondità non si poteva dubitare”. Ma per la Cassazione civile – sezione lavoro – che ha confermato nei giorni scorsi una sentenza della Corte d’Appello di Milano, il suo rientra tra i casi di licenziamento ‘per causa di matrimonio’. Il ‘benservito’ alla donna è stato considerato nullo con conseguente condanna al reintegro della lavoratrice e un risarcimento del danno pari a poco più di seimila euro per il periodo in cui non ha lavorato dopo essere stata cacciata. La cronologia degli eventi è importante per capire l’epilogo.
L’11 marzo 2019 la donna aveva informato l’ufficio del personale che si sarebbe sposata il 30 giugno dello stesso anno. Nello spiegare le ragioni per cui hanno respinto il ricorso della società, gli ermellini si richiamano a numerosi principi costituzionali, relativi alla tutela di donna, famiglia e lavoro ma sottolineano anche che a ‘parlare’ è il fatto oggettivo in sè. Si legge nella sentenza, visionata dall’AGI: “Nel recesso per causa di matrimonio ciò che rileva non è l’intento discriminatorio o meno bensì il dato oggettivo che il licenziamento è avvenuto nel periodo di un anno dal giorno della richiesta di pubblicazioni del matrimonio cui è seguita la celebrazione, un dato che non è contestato”.
E nemmeno ha valore l’argomento che comunque la donna già conviveva ed era prevedibile una futura maternità perché la legge contiene “misure volte a garantire alla donna la possibilità di coniugare il diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare ed è fondata su una pluralità di principi costituzionali posti a tutela della donna lavoratrice e non solo quale potenziale genitrice”.