AGI – Il 4 maggio di 75 anni fa moriva, in un incidente aereo, il Grande Torino. Una squadra fortissima che aveva vinto uno scudetto (e la Coppa Italia) nel 1942-43 e che era tornata a conquistare il tricolore per quattro volte di seguito nella ripresa post-bellica del campionato di serie A. All’epoca non c’era ancora la Coppa Campioni, poi diventata Champions, ma la fama del Grande Torino era andata ben oltre i confini nazionali. Perchè veder giocare quella formazione leggendaria, una macchina perfetta praticamente imbattibile costruita dal presidente Ferruccio Novo, era davvero un’esperienza unica e i club stranieri facevano a gara per invitare i granata a esibirsi all’estero: il ‘tutto esaurito’ allo stadio era garantito.
Celebre fu una tournèe di successo alla quale capitan Mazzola e i suoi compagni presero parte nell’estate del 1948 in Brasile per sfidare i migliori club paulisti. E il 4 maggio del 1949, quando l’aereo andò a schiantarsi contro il colle della Basilica di Superga in un pomeriggio di tempesta, il Grande Torino era reduce proprio da una trasferta a Lisbona per salutare, in modo degno, l’addio al calcio del capitano del Portogallo nonché stella del Benfica Francisco Ferreira. Il Grande Torino rappresentava anche la Nazionale italiana e quindi anche le aspettative (sportive e non) di un Paese uscito dalla guerra con le ossa rotte e che lavorava sodo per rimettersi in sesto: il record, che ancora resiste, è dell’11 maggio del 1947 quando 10 granata su 11 furono schierati in maglia azzurra nel match vinto 3-2 sull’Ungheria del giovane ma già promettente Ferenc Puskas. Per la cronaca, mancava solo il portiere Valerio Bacigalupo perché il commissario tecnico Vittorio Pozzo preferì affidarsi allo juventino Sentimenti IV, più anziano e quindi più esperto.
Ma, Nazionale a parte, a distanza di tantissimo tempo, sono numerosi i primati collezionati dal Grande Torino e rimasti a oggi imbattuti: dal 10-0 inflitto in casa all’Alessandria alla vittoria in trasferta più rilevante (0-7 alla Roma). C’è poi il maggior numero di gol segnati in campionato: 125 in 40 incontri, in un torneo di A a 21 squadre, con una media da far paura di 3,1 gol a partita. E la chicca della tripletta più veloce che Mazzola mise a segno in tre minuti (dal 29esimo al 31esimo) in un Torino-Vicenza 6-0. E poi ci sono, ovviamente, record ormai raggiunti, ma che all’epoca fecero impressione come la conquista di uno scudetto con cinque turni di anticipo o la prima volta di un’accoppiata vincente Campionato-Coppa Italia (1942-43). Il Grande Torino eguagliò i cinque scudetti di fila, primato già detenuto dalla Juventus (dal 1930-31 al 1934-35), ma, se non ci fosse stata la guerra, i tricolori consecutivi sarebbero stati molti di più. Un altro record ‘impossibile’, che nessuna squadra italiana è stata in grado di uguagliare, è quello dell’imbattibilità interna: per 6 anni e 9 mesi (dal 31 gennaio del 1943 al 23 ottobre del 1949) cioè l’equivalente di 100 partite, di cui 3 giocate dai ragazzi della Primavera subito dopo la tragedia di Superga e 4 dalla nuova squadra nel campionato successivo, i granata non conobbero sconfitte: 89 vittorie e 11 pareggi con 363 gol realizzati e 80 incassati.
Ben 88 incontri dei 100 furono disputati al Filadelfia, dove ora si allena la prima squadra. Quello stadio era un vero e proprio fortino, con il pubblico attaccato alle inferriate che ‘alitava’ sui giocatori e dava la carica alla squadra di casa. Gli avversari scendevano sul terreno di gioco già intimoriti e rassegnati a fare da vittima sacrificale. A volte poteva succedere che il Grande Torino si limitasse a trotterellare in campo senza essere particolarmente stimolato, quasi fosse indolente. Il pubblico, evidentemente di bocca buona, cominciava a rumoreggiare. E a quel punto dagli spalti si prendeva la scena Oreste Bolmida, di mestiere capostazione a Porta Nuova: con la sua trombetta dava la carica alla squadra, capitan Mazzola si arrotolava le maniche della casacca e nell’arco di pochi minuti il Grande Torino tornava ad essere la squadra di sempre e portava a casa la partita. Era il famoso quarto d’ora granata.
Tantissimi libri e qualche bel film hanno raccontato le gesta di questi ragazzi entrati nella leggenda e diventati eterni. Sul luogo del disastro aereo c’è una lapide con i nomi dei Caduti che ogni anno il capitano del Toro commemora citandoli uno per uno. Eccoli: Valerio Bacigalupo (25 anni, portiere), Aldo Ballarin (27, difensore), Dino Ballarin (23, portiere), Emile Bongiorni (28, attaccante), Eusebio Castigliano (28, mediano), Rubens Fadini (21, centrocampista), Guglielmo Gabetto (33, attaccante), Roger Grava (27, centravanti), Giuseppe Grezar (30, mediano), Ezio Loik (29, mezzala destra), Virgilio Maroso (23, terzino sinistro), Danilo Martelli (25, mediano e mezzala), Valentino Mazzola (30, attaccante e centrocampista), Romeo Menti (29, attaccante), Piero Operto (22, difensore), Franco Ossola (27, attaccante), Mario Rigamonti (26, difensore), Julius Schubert (26, mezzala).
E poi i dirigenti Egidio Agnisetta (55, Direttore Generale), Ippolito Civalleri (66, accompagnatore), e Andrea Bonaiuti (36, organizzatore delle trasferte) e lo staff tecnico, Egri Erbstein (50, direttore tecnico), Leslie Lievesley (37, allenatore) e Ottavio Cortina (52, massaggiatore). Tra i morti anche i giornalisti Renato Casalbore (Tuttosport), Renato Tosatti (la Gazzetta del Popolo) e Luigi Cavallero (la Nuova Stampa) e i membri dell’equipaggio Pierluigi Meroni (primo pilota), Cesare Bianciardi (secondo pilota), Celeste D’Incà (motorista) e Antonio Pangrazzi (radiotelegrafista).
Così scrisse Indro Montanelli, il 7 maggio del 1949, sul Corriere della Sera: “Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta“. Quando ci fu la tragedia di Superga, mancavano quattro giornate alla fine del campionato: il Grande Torino, che aveva già accumulato un discreto vantaggio sull’Inter seconda, fu proclamato a tavolino vincitore e il club granata, nelle restanti partite, fu costretto a schierare i ragazzi. Cosa che fecero sportivamente anche gli avversari. Ma lo choc di quel disastro rimase vivo per molto tempo ancora nel Paese: prova ne fu che nel 1950, in vista dei Campionati Mondiali in Brasile, l’Italia, detentrice dei titoli del 1934 e del 1938 ma ricostruita da zero senza più l’ossatura del Grande Torino, scelse di viaggiare via mare. Una traversata che durò 15 giorni svuotando di ogni energia i giocatori, tra palloni che finivano nell’oceano e allenamenti ‘sui generis’ fatti sul ponte della nave. Bastarono due partite per uscire dal torneo e riprendere la strada di casa. Questa volta con l’aereo.
AGI – Il 4 maggio di 75 anni fa moriva, in un incidente aereo, il Grande Torino. Una squadra fortissima che aveva vinto uno scudetto (e la Coppa Italia) nel 1942-43 e che era tornata a conquistare il tricolore per quattro volte di seguito nella ripresa post-bellica del campionato di serie A. All’epoca non c’era ancora la Coppa Campioni, poi diventata Champions, ma la fama del Grande Torino era andata ben oltre i confini nazionali. Perchè veder giocare quella formazione leggendaria, una macchina perfetta praticamente imbattibile costruita dal presidente Ferruccio Novo, era davvero un’esperienza unica e i club stranieri facevano a gara per invitare i granata a esibirsi all’estero: il ‘tutto esaurito’ allo stadio era garantito.
Celebre fu una tournèe di successo alla quale capitan Mazzola e i suoi compagni presero parte nell’estate del 1948 in Brasile per sfidare i migliori club paulisti. E il 4 maggio del 1949, quando l’aereo andò a schiantarsi contro il colle della Basilica di Superga in un pomeriggio di tempesta, il Grande Torino era reduce proprio da una trasferta a Lisbona per salutare, in modo degno, l’addio al calcio del capitano del Portogallo nonché stella del Benfica Francisco Ferreira. Il Grande Torino rappresentava anche la Nazionale italiana e quindi anche le aspettative (sportive e non) di un Paese uscito dalla guerra con le ossa rotte e che lavorava sodo per rimettersi in sesto: il record, che ancora resiste, è dell’11 maggio del 1947 quando 10 granata su 11 furono schierati in maglia azzurra nel match vinto 3-2 sull’Ungheria del giovane ma già promettente Ferenc Puskas. Per la cronaca, mancava solo il portiere Valerio Bacigalupo perché il commissario tecnico Vittorio Pozzo preferì affidarsi allo juventino Sentimenti IV, più anziano e quindi più esperto.
Ma, Nazionale a parte, a distanza di tantissimo tempo, sono numerosi i primati collezionati dal Grande Torino e rimasti a oggi imbattuti: dal 10-0 inflitto in casa all’Alessandria alla vittoria in trasferta più rilevante (0-7 alla Roma). C’è poi il maggior numero di gol segnati in campionato: 125 in 40 incontri, in un torneo di A a 21 squadre, con una media da far paura di 3,1 gol a partita. E la chicca della tripletta più veloce che Mazzola mise a segno in tre minuti (dal 29esimo al 31esimo) in un Torino-Vicenza 6-0. E poi ci sono, ovviamente, record ormai raggiunti, ma che all’epoca fecero impressione come la conquista di uno scudetto con cinque turni di anticipo o la prima volta di un’accoppiata vincente Campionato-Coppa Italia (1942-43). Il Grande Torino eguagliò i cinque scudetti di fila, primato già detenuto dalla Juventus (dal 1930-31 al 1934-35), ma, se non ci fosse stata la guerra, i tricolori consecutivi sarebbero stati molti di più. Un altro record ‘impossibile’, che nessuna squadra italiana è stata in grado di uguagliare, è quello dell’imbattibilità interna: per 6 anni e 9 mesi (dal 31 gennaio del 1943 al 23 ottobre del 1949) cioè l’equivalente di 100 partite, di cui 3 giocate dai ragazzi della Primavera subito dopo la tragedia di Superga e 4 dalla nuova squadra nel campionato successivo, i granata non conobbero sconfitte: 89 vittorie e 11 pareggi con 363 gol realizzati e 80 incassati.
Ben 88 incontri dei 100 furono disputati al Filadelfia, dove ora si allena la prima squadra. Quello stadio era un vero e proprio fortino, con il pubblico attaccato alle inferriate che ‘alitava’ sui giocatori e dava la carica alla squadra di casa. Gli avversari scendevano sul terreno di gioco già intimoriti e rassegnati a fare da vittima sacrificale. A volte poteva succedere che il Grande Torino si limitasse a trotterellare in campo senza essere particolarmente stimolato, quasi fosse indolente. Il pubblico, evidentemente di bocca buona, cominciava a rumoreggiare. E a quel punto dagli spalti si prendeva la scena Oreste Bolmida, di mestiere capostazione a Porta Nuova: con la sua trombetta dava la carica alla squadra, capitan Mazzola si arrotolava le maniche della casacca e nell’arco di pochi minuti il Grande Torino tornava ad essere la squadra di sempre e portava a casa la partita. Era il famoso quarto d’ora granata.
Tantissimi libri e qualche bel film hanno raccontato le gesta di questi ragazzi entrati nella leggenda e diventati eterni. Sul luogo del disastro aereo c’è una lapide con i nomi dei Caduti che ogni anno il capitano del Toro commemora citandoli uno per uno. Eccoli: Valerio Bacigalupo (25 anni, portiere), Aldo Ballarin (27, difensore), Dino Ballarin (23, portiere), Emile Bongiorni (28, attaccante), Eusebio Castigliano (28, mediano), Rubens Fadini (21, centrocampista), Guglielmo Gabetto (33, attaccante), Roger Grava (27, centravanti), Giuseppe Grezar (30, mediano), Ezio Loik (29, mezzala destra), Virgilio Maroso (23, terzino sinistro), Danilo Martelli (25, mediano e mezzala), Valentino Mazzola (30, attaccante e centrocampista), Romeo Menti (29, attaccante), Piero Operto (22, difensore), Franco Ossola (27, attaccante), Mario Rigamonti (26, difensore), Julius Schubert (26, mezzala).
E poi i dirigenti Egidio Agnisetta (55, Direttore Generale), Ippolito Civalleri (66, accompagnatore), e Andrea Bonaiuti (36, organizzatore delle trasferte) e lo staff tecnico, Egri Erbstein (50, direttore tecnico), Leslie Lievesley (37, allenatore) e Ottavio Cortina (52, massaggiatore). Tra i morti anche i giornalisti Renato Casalbore (Tuttosport), Renato Tosatti (la Gazzetta del Popolo) e Luigi Cavallero (la Nuova Stampa) e i membri dell’equipaggio Pierluigi Meroni (primo pilota), Cesare Bianciardi (secondo pilota), Celeste D’Incà (motorista) e Antonio Pangrazzi (radiotelegrafista).
Così scrisse Indro Montanelli, il 7 maggio del 1949, sul Corriere della Sera: “Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta”. Quando ci fu la tragedia di Superga, mancavano quattro giornate alla fine del campionato: il Grande Torino, che aveva già accumulato un discreto vantaggio sull’Inter seconda, fu proclamato a tavolino vincitore e il club granata, nelle restanti partite, fu costretto a schierare i ragazzi. Cosa che fecero sportivamente anche gli avversari. Ma lo choc di quel disastro rimase vivo per molto tempo ancora nel Paese: prova ne fu che nel 1950, in vista dei Campionati Mondiali in Brasile, l’Italia, detentrice dei titoli del 1934 e del 1938 ma ricostruita da zero senza più l’ossatura del Grande Torino, scelse di viaggiare via mare. Una traversata che durò 15 giorni svuotando di ogni energia i giocatori, tra palloni che finivano nell’oceano e allenamenti ‘sui generis’ fatti sul ponte della nave. Bastarono due partite per uscire dal torneo e riprendere la strada di casa. Questa volta con l’aereo.