L’ultimo libro di Luca De Fiore, direttore generale de Il Pensiero Scientifico Editore, è un eccellente manualetto che riassume molto bene perché la pubblicazione in ambito biomedico – ma per la mia esperienza pormai in qualunque ambito scientifico – si è trasformata in un’industria da 30 miliardi di dollari annui che è tossica per la comunità, la comunicazione e in generale l’intera impresa scientifiche.
Il libro, che si intitola “Sul pubblicare in medicina”, ha il pregio della chiarezza espositiva, dell’agilità e anche di una veste editoriale accattivante, che ne fanno il candidato ideale per diffondere a tutti la crisi della documentazione della conoscenza scientifica in cui ci ha portato la separazione fra il valore di mercato della pubblicazione scientifica e l’incentivo basato sulla valutazione bibliometrica dei ricercatori che lo sostiene, da un lato, e la necessità indispensabile al progresso della scienza che consiste nel condividere la conoscenza nel modo più controllato e riproducibile possibile, dall’altro.
Sono argomenti di cui ho spesso trattato anche su queste pagine e altrove, ma credo che si possa spendere ancora una qualche parola circa l’eplorazione di qualche realistica soluzione al proliferare velenoso di scritti inutili (giacchè frode ed errore sono solo la frazione minore delle sciocchezze pubblicate) pompato dal mercato editoriale e mantenuto come strumento di controllo della comunità scientifica da chi ne occupa i vertici.
Non è un problema periferico o di poco contro: è già diventato piuttosto difficile per chi voglia mantenersi aggiornato sapere come selezionare le proprie fonti, nella marea montante di carta pubblicata, e un problema ancora maggiore sta nel fatto che, caduta l’illusione di una revisione dei pari che sia sufficiente a garantire la qualità di quanto si legge, è sempre più complicato essere certi di non cadere vittima di articoli erronei, ridondanti, fraudolenti o comunque affetti da gravi problemi, sfuggiti ai revisori.
La soluzione teorica da tutti auspicata è il limitarsi ad un numero molto minore di pubblicazioni, fondata da un lato sull’abbandono degli incentivi di carriere e di finanziamento alla ricerca basati sul numero di pubblicazioni e citazioni, e dall’altro sul pieno ritorno alla pubblicazione scientifica svincolata dalla realizzazione economica di un settore privato sul mercato, sostenuta cioè da enti e istituzioni scientifiche (come in parte già avviene per quelle accademie e società scientifiche che hanno mantenute le proprie riviste) attraverso una frazione della spesa pubblica che oggi finisce a formare il bilancio multimiliardario dei grandi editori scientifici.
Dico soluzione teorica perché, come è evidente, tanto il mercato, quanto la stessa comunità scientifica – almeno quella parte che controlla attraverso comitati editoriali e varie strategie più o meno lecite il resto dei ricercatori, attraverso il valore attribuito al pubblicare – spingono in direzione del tutto opposta, almeno finchè eventualmente la barca non affonderà da sola sovraccarica per il troppo veleno che produce.
In questo quadro, vi è forse qualche forza realistica che potrebbe contrastare gli interessi di cui sopra, e non certo per etica o per senso morale: vi sono, infatti, all’interno del mercato industrie altrettanto redditizie e ben più grandi di quelle della pubblicazione scientifica, che hanno interesse alla disponibilità di un’informazione scientifica controllata, ben riproducibile e quindi sostanzialmente integra.
Imprese quali quelle farmaceutiche, o quelle delle telecomunicazioni, o quella legata ad applicazioni di interesse militare, così come molte altre, non possono tollerare all’infinito che i propri ricercatori e tecnici non sappiamo che pesci pigliare, quando si trovano davanti l’attuale valanga di carta straccia che nasconde le vere, poche perle fisiologicamente in numero non elevatissimo; ed è quindi da aspettarsi che sempre più si assista alla formazione di banche dati (costituite da pubblicazioni, ma anche risultati sperimentali) controllate e gestite da quei soggetti che costruiscono il proprio valore di mercato a partire dall’innovazione e dalla conoscenza scientifiche.
Non è un panorama rassicurante: le tendenze a creare grandissimi depositi di informazione utile e controllata, ma non aperta e disponibile a causa dei meccanismi di concorrenza, sono già oggi dei meccanismi in moto in diversi settori della conoscenza umana.
In questo senso, invece che all’estinzione della conoscenza scientifica, dispersa in mille pubblicazioni inutili e resa sempre più ardua visto il gioco in cui sempre più si impegnano i ricercatori, si potrebbe assistere alla sopravvivenza in una nuova forma della conoscenza scientifica, cioè al suo ramificarsi all’interno di grandi soggetti privati e concorrenti. Una forma, intendiamoci bene, che renderà l’avanzamento complessivo comunque più lento e difficoltoso, a causa della mancanza di una delle caratteristiche fondamentali alla base del funzionamento della comunità scientifica – l’apertura e la trasparenza.
E’ per questo motivo che non si può lasciare il mercato libero di continuare nel suo corso: sebbene nel mercato possono esservi gli antidoti al graduale avvelenamento causato dall’editoria scientifica priva di regole e scrupoli, altre temibili dinamiche potrebbero comunque prendere il sopravvento, senza causare la fine della scienza, ma la sua privatizzazione.
E’ assolutamente necessario riprendere in mano la comunicazione scientifica e limitare il ruolo del mercato al più a quello editoriale, magari attraverso società commissionarie degli enti di ricerca che mantangano siti, pubblicazioni e dati in modo professionale; è necessario, cioè, che la pubblicazione ritorni a essere comunicazione di un risultato scientifico alla comunità, e non lucroso business di alcune multinazionali.