Che cosa è la vita? La domanda risuona da millenni, e ha trovato risposte sempre diverse e sempre più elaborate a superare le precedenti, che si erano dimostrate insoddisfacenti. Il fatto che ciascuna nuova formulazione abbia trovato sempre una smentita dovrebbe indurci ad una riflessione, che può rendere giustizia del perché sinora non si sia trovata una risposta condivisa e universale.
Il punto è il seguente: la vita non esiste come fenomeno nettamente separato dalla non vita, e di conseguenza non vi è una categoria ontologica nel senso essenziale con cui si intende usualmente distinguere ciò che è vivo da ciò che non lo è. Non vi sono cioè confini qualitativi netti: cercare di tracciare un confine, ponendo da un lato quei sistemi materiali che dichiariamo privi di vita e dall’altro quelli che crediamo possiedano la vita, è un esercizio arbitrario, che incontrerà oltretutto sempre eccezioni, qualunque sia la definizione che scegliamo, così rendendo vano il tentativo di identificare una “essenza” di ciò che è vivo. Oltretutto, molto spesso l’individuazione di quel confine risente di una certa dose di antropocentrismo – più qualcosa possiede quelle proprietà che in noi stessi riconosciamo, più sentiamo di doverlo dichiarare vivo e di doverlo distinguere da ciò che invece ci appare più distante perché condivide apparentemente un numero minore di quelle proprietà.
Se l’idea di vita nettamente separata dal resto della realtà fisica, presa in una qualunque delle sue manifestazioni sin qui occorse nella storia del pensiero umano, è un concetto arbitrario, questo non significa che non sia utile: ma ha una natura pratica, ovvero è un paletto che piantiamo di volta in volta per distinguere nella discussione un certo insieme di sistemi fisici da tutti gli altri, di cui stabiliamo di interessarci particolarmente. La cosa non è dissimile da quel che facciamo quando per esempio fissiamo un limite di velocità, per raggruppare insieme gli individui che possono costituire un pericolo per gli altri al di sopra di una certa soglia di probabilità e multarli, e separarli da coloro che hanno meno probabilità di far danno, e a cui stabiliamo esser consentito di circolare liberamente.
Come avviene per quel che riguarda una vettura e la definizione di “eccessivamente veloce” o “nei limiti”, così possiamo riscontrare una sostanziale continuità tra ciò che usualmente definiamo come inorganico e ciò che chiamiamo vivente, qualunque sia il criterio di demarcazione o l’insieme di proprietà che scegliamo di utilizzare. La cosa è ovviamente legata al fatto che l’origine di quei particolari sistemi che amiamo separare dagli altri in quanto viventi non comporta una fondamentale discontinuità nelle leggi della fisica e della chimica, ma solamente l’instaurarsi storico di una serie di processi che costituiscono il naturale sviluppo di quanto probabilmente avviene in molti punti dell’universo, nelle condizioni opportune. L’abiogenesi, cioè, è un fenomeno che ha portato in maniera del tutto continua e contingente a sviluppare una complessità crescente, fino ad arrivare a certi sistemi chimico fisici per noi così interessanti da riconoscerli come “vivi” e da raggrupparli con noi; non è lo scoccare di una scintilla, né l’avvenire di un’irripetibile circostanza, ma il graduale e spontaneo organizzarsi della materia e dei processi di trasformazione ad essa collegati, sotto l’azione universale della selezione naturale e delle leggi chimico/fisiche, che dà origine a ciò che oggi vediamo tutto intorno a noi “crescere e moltiplicarsi”.
Certo, in qualunque luogo del cosmo che abbiamo avuto modo di esplorare il processo non è arrivato ad un livello di complessità nemmeno lontanamente paragonabile a quello raggiunto sul nostro pianeta, e anzi oggi non siamo ancora a conoscenza di nessun altro pianeta su cui sia con certezza emerso almeno un sistema chimico capace di replicarsi e di evolvere; ma questo può ben essere innanzitutto il risultato della difficoltà di identificare la vita a distanza nello spazio, oppure il risultato di circostanze particolari, o anche l’esito non della nostra parzialissima conoscenza degli organismi viventi, e non vi è bisogno di invocare leggi naturali speciali, differenze sostanziali o specialissime caratteristiche della materia che chiamiamo vivente rispetto a tutta la rimanente parte della realtà.
Possiamo anche ritenere speciali gli organismi viventi, perlomeno per quanto riguarda il grado di complessità dell’organizzazione strutturale e funzionale da cui dipendono per il proprio mantenimento; ma questa complessità è in continuità diretta con tutto il resto del mondo fisico, e non richiede di tracciare speciali confini che separino i sistemi viventi da tutto il resto della realtà fisica, se non come modo pragmatico per restringere la discussione a ciò di cui intendiamo occuparci, come facciamo per esempio quando escludiamo i virus dal novero degli esseri viventi per certe loro particolari mancanze biochimiche e metaboliche. Vita è ciò che così decidiamo di definire; l’utilità o meno di una definizione rispetto ad un’altra dipende solo dai nostri scopi e, almeno in parte, è frutto dei nostri bias.