Che cosa è la memoria? Una parte della risposta è quella ovvia, quella su cui abbiamo costruito il concetto stesso di memoria: la capacità di richiamare alla mente percezioni di cui abbiamo avuto precedentemente esperienza diretta, indipendentemente dal fatto che tali percezioni si riferiscono a oggetti, persone, luoghi, eventi o qualunque altro tipo di dati percettivi provenienti dall’ambiente che abbiamo attraversato. Questo tipo di risposta, tuttavia, si limita alla definizione di una funzione della nostra mente che chiamiamo memoria; una risposta di maggiore profondità richiede l’identificazione del correlato fisico di questa funzione, ovvero la definizione di un meccanismo che corrisponda alla formazione di ogni particolare memoria e sul quale poggi quella funzione mentale.
Ora, è noto da tempo come quella che potremmo definire la componente fisica di un ricordo è costituita da neuroni attivati e dalle sinapsi che li connettono, sinapsi che sono formate durante l’evento percettivo di cui otteniamo memoria. In sostanza, un ricordo corrisponde a un insieme di neuroni che si sono connessi a scolpirne la codifica fisica nel nostro cervello. Questo insieme particolare di neuroni corrispondente a uno specifico ricordo è chiamato dai neuroscienziati “engramma”.
In un nuovo, formidabile studio da poco pubblicato, è stato possibile sia verificare la formazione di particolari engrammi associati alla memoria di uno specifico evento, sia verificare come la perdita del corrispondente ricordo sia associata all’interferenza sull’attività di tale specifico engramma. In breve, attraverso una tecnica molto avanzata di biologia cellulare che qui non è il caso di richiamare, si è innanzitutto osservata la formazione di specifici engrammi nel cervello di alcuni topo mentre esploravano un ambiente contenente una serie di oggetti, ad esempio un paio di piccole bottiglie d’acqua in una camera con uno schema di triangoli sulla parete per fornire informazioni contestuali. Un’ora dopo, i ricercatori hanno esposto i topi a una diversa coppia di oggetti, come piccole statue, in una camera diversa con pareti a strisce.
Il giorno dopo l’esperimento, i ricercatori hanno testato se la seconda esposizione influenzava la memoria della prima coppia oggetto-contesto. Hanno posizionato i topi nella prima camera (pareti con stampa triangolare) con una bottiglia d’acqua, aggiungendo una statua come nel secondo esperimento (pareti a strisce). I topi che erano stati esposti il giorno prima alla seconda stanza hanno mostrato di esplorare entrambi gli oggetti allo stesso modo, mentre i topi esposti solo alla prima stanza hanno esplorato maggiormente la statua, riconoscendola come un nuovo oggetto “fuori contesto”.
In sostanza, i topi che avevano sperimentato l’esposizione a due diverse stanze con due tipi di oggetto “facevano confusione”, mostrando di reagire a entrambi i due oggetti il giorno dopo come se si trattasse di oggetti nuovi (cioè perdendo la memoria); i topi che invece avevano avuto agio di esplorare una sola stanza con un solo oggetto, e così avevano memorizzato l’associazione, hanno reagito al solo “oggetto estraneo”, senza cioè tornare a esplorare ciò che ricordavano di aver visto in quella stanza il giorno prima.
Ora, la cosa interessante e nuova osservata grazie alla straordinaria metodica utilizzata dal gruppo di ricerca è che mentre i topi che avevano dimenticato di aver già visto certi oggetti mostravano una scarsa riattivazione dell’engramma che avevano formato il giorno prima in corrispondenza quando esposti a quegli oggetti, i topi che avevano mantenuto la memoria riattivavano in maniera viva l’engramma corrispondente, con ciò confermando la relazione tra formazione della memoria, creazione di un particolare engramma e riattivazione di questo al richiamo di un ricordo. Non solo: attraverso una tecnologia chiamata “optogenetica” i ricercatori sono stati in grado di stimolare specificamente l’engramma dei topi che avevano perso la memoria, cioè di riattivarlo artificialmente dall’esterno. Questi topi hanno recuperato la memoria, rivolgendo la loro attenzione al solo oggetto fuori contesto, come i topi che non erano stati esposti a eventi confondenti il giorno prima. Inoltre, se durante la sessione in cui si intendeva ingenerare confusione nella memoria dei topi, l’engramma formato alla prima esposizione era inibito esternamente attraverso l’optogenetica, l’evento confondente non riusciva a interferire con la memoria del primo; questo dimostra che la cancellazione di un ricordo avviene perché un secondo evento “riutilizza” gli stessi neuroni impegnati in un engramma formato precedentemente.
La soppressione di un ricordo e il conseguente oblio, cioè, almeno per il tipo di memoria in questione (quella associativa e legata a oggetti e aspetto del contesto in cui sono collocati) appaiono come un processo attivo di sovrascrittura di precedenti ricordi, il che spiega perché la sovrastimolazione è un classico processo che porta alla perdita di memoria anche negli umani. Dimenticare è un modo di fare spazio per nuovi ricordi durante l’apprendimento, e viceversa è possibile richiamare un ricordo remoto attivando il corrispondente engramma; l’analogia fra la nostra mente e una rete di neuroni informatici diviene sempre più palese, aprendo un mondo di possibili applicazioni sia per la cura del nostro cervello biologico che per il miglioramento di quello in silicio.