Tutti i miei lettori immagino ricorderanno bene certe edificanti e consolanti storielle su una presunta legge di natura, che porterebbe i patogeni come i virus a rabbonirsi, attraverso una sorta di “adattamento” preordinato che ne diminuirebbe virulenza e letalità in vista di quello che è stato perfino definito come il “loro stesso interesse”.
Virulenza e letalità, in realtà, possono diminuire, rimanere le stesse o aumentare, in un meccanismo che interseca casualità e selezione causata dall’ambiente, incluso l’ospite e la sua ecologia, in un modo che difficilmente è prevedibile a priori e che certamente non segue nessuna particolare traiettoria, salvo una: andare globalmente in una direzione che aumenti il numero di discendenti lasciati da ogni replicatore in competizione con gli altri, il che, si badi bene, non costituisce una legge teleologica, ma al contrario il risultato di una statistica osservata a posteriori.
Che l’inevitabile rabbonimento dei patogeni ed in particolare dei virus sia una sciocchezza, dovuta ai preconcetti e all’ignoranza in fatto di teoria dell’evoluzione da parte di chi propugna certe tesi, giunge a dimostrarlo un nuovo lavoro appena pubblicato su Science, che ha interesse sia per la profondità dello studio effettuato, sia per le lezioni che se ne possono trarre.
Un gruppo di ricercatori che includeva scienziati e archeologi di Oxford e di Monaco ha studiato l’evoluzione di un particolare virus, il virus della malattia di Marek dei polli (MDV). Al momento della sua descrizione iniziale nel 1907, la malattia di Marek era una malattia relativamente lieve con bassa mortalità, caratterizzata da una patologia nervosa che colpiva principalmente individui più anziani. Tuttavia, nel corso del ventesimo secolo e soprattutto a partire dagli anni ‘60, la letalità correlata all’MDV è aumentata fino a superare il 90 per cento nei polli non vaccinati, tanto che oggi il suo contenimento tramite vaccini e sorveglianza costa all’industria del settore oltre un miliardo di dollari annui.
Che cosa è successo?
Per comprenderlo, i ricercatori hanno deciso di sequenziare eventuali genomi virali conservati nei numerosi resti archeologici di polli allevati da antiche popolazioni umane, per confrontarli con quelli dei ceppi di MDV a noi contemporanei.
Il virus, come è risultato da questi studi, ha infestato gli allevamenti da almeno 1.000 anni; i virus antichi sono inoltre ceppi progenitori diretti di quelli che ancora oggi circolano e il loro genoma non ha né perso, né acquisito nuovi geni.
Di conseguenza, la variazione di patogenicità osservata non può che essere correlata a mutazioni puntiformi in geni già presenti 1.000 anni fa, che devono aver dato origine a varianti più virulente a partire dal secolo scorso.
La patogenicità odierna del virus MDV dipende dall’attività di un oncogene virale, chiamato Meq, che induce nei polli infetti e non vaccinati un tumore del sistema immune; questo è vantaggioso per il virus, perché ovviamente interferisce con la risposta difensiva dell’ospite, e letale per i polli.
I ricercatori hanno osservato che fra i geni oggetto di selezione naturale in MDV durante la sua lunga storia risultava appunto il gene Meq, con una chiara storia evolutiva che vede una forte selezione ed espansione di certe particolari varianti proprio a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, ovvero in coincidenza del suo aumento di patogenicità.
Confrontando le varianti antiche di Meq con quelle selezionate recentemente nel virus, i ricercatori si sono accorti che tutte quelle precedenti agli anni ‘60 erano incapaci di dare origini a tumore, mentre quelle successive mostrano una oncogenicità via via più alta, che rispecchia perfettamente l’aumento di patogenicità del virus.
Dunque, nella storia millenaria del virus, a un certo punto del secolo scorso è cominciata la selezione di varianti genetiche capaci di indurre un tumore e via via più letali (altro che rabbonimento).
Perché, se la tumorigenesi è oggi vantaggiosa per il virus, non lo è stata per la gran parte della sua evoluzione? Ce lo spiegano gli stessi ricercatori:
“L’antico MDV probabilmente stabiliva un’infezione cronica caratterizzata da una replicazione virale più lenta, bassi livelli di diffusione virale e una patologia di scarso significato clinico, che facilitava la massima trasmissione virale nel corso della vita in ambienti preindustrializzati a bassa densità [di ospite]”.
A bassa densità di polli, nei piccoli pollai rurali che hanno caratterizzato la maggior parte della storia di questo allevamento, i ceppi più virulenti portavano facilmente all’estinzione di un intero pollaio, senza potersi propagare altrove a causa della lontananza di altri pollai. Attualmente, gli enormi allevamenti industriali e i viaggi su lunga distanza degli animali in questi contenuti hanno eliminato questo vincolo evolutivo, permettendo ai ceppi che si replicano di più abbattendo la risposta immune di un animale e uccidendolo di potersi comunque propagare ad altri ospiti, prima che l’ospite di partenza muoia.
Il cambio di ecologia dell’ospite, piegato alle esigenze degli allevamenti su larga scala impiantati da una popolazione umana anch’essa esponenzialmente cresciuta, hanno cambiato le forze selettive all’opera su MDV, causando la selezione di ceppi oncogenici casualmente emersi; il mantenimento dello stesso tipo di selezione ha portato quindi all’accumulo di mutazioni verso una sempre maggior patogenicità, per incremento dello stesso tratto.
L’esempio documentato da Science in questo splendido lavoro di archeogenetica virale è ricco di insegnamenti.
Innanzitutto, possiamo cogliere come siano le circostanze più svariate a influenzare il verso della selezione e la fitness di varianti più o meno patogene del virus; per questo, non esiste nessuna legge di natura che porti verso adattamenti benevoli, ma solo in insieme di possibilità variabili, alcune delle quali troveranno realizzazione effettiva in dipendenza di circostanze storiche (l’evoluzione biologica è infatti un processo eminentemente storico).
In secondo luogo, ancora una volta si osserva come il sistema intensivo di allevamento, che è recentissimo, abbia un profondo effetto evolutivo sui patogeni e sui loro ospiti: noi alleviamo non solo i nostri animali, ma anche tutti gli organismi che sono ineliminabilmente connessi a essi, con conseguenze che possono essere molto diverse da quelle che auspichiamo.
Ancora, possiamo vedere come solo la vaccinazione – dei polli, degli umani o di qualunque altra specie – possa tenere a bada i patogeni, che in natura pongono un vincolo alla massima densità e numerosità di una popolazione, vincolo che da tempo abbiamo superato proprio grazie alla medicina moderna; se decidessimo di rinunciare a essa, il nostro stesso numero ci condannerebbe a diminuire fino a ritrovarci in piccole comunità isolate, le quali riuscirebbero ad agire come fattore di controllo sui patogeni infettivi solo perché l’estinzione di ognuna di esse dopo l’emersione di qualche variante molto patogenica impedirebbe la propagazione della malattia al resto della popolazione umana. In assenza di medicina, il freno alla propagazione dei virus sarebbe cioè la morte di interi gruppi umani, e solo dopo che la popolazione e la mobilità globali siano diminuite ad un livello tale da impedire la comunicazione fra gruppi umani infetti, nel tempo che essi periscono.
Ora, quanto ho detto non è solo in accordo con quanto osservato anche in questo ultimo lavoro sui polli, ma è facilmente prevedibile conoscendo i rudimenti dell’euristica di Darwin o, meglio ancora, la moderna versione quantitativa delle sue idee. Invece di presentare dati e conti, ho preferito spendere qualche parola in più, traendo spunto da questo ultimo lavoro su MDV, nella speranza di essere compreso più ampiamente, soprattutto da chi, magari a seguito delle parole di un qualche cattedratico, si è fatto sedurre dall’idea di un’evoluzione biologica che tende al nostro bene.