AGI – L’ultima arrivata sul mercato è la Zariota, che in dialetto cervese significa appunto “ostrica”. Nella scorsa estate è apparsa in Romagna sotto gli ombrelloni all’ora dell’aperitivo e la sera nei ristoranti locali. A proporle in via sperimentale è la Cooperativa La Fenice, da 30 anni leader nella produzione delle cozze.
Annusando il trend di un mercato in crescita, ha ampliato l’offerta con il mollusco bivalve. “Festeggiamo il secondo Natale di Zariote con una piccola produzione, abbiamo venduto quasi tutto, ora ci prepariamo a Pasqua – dice il direttore vendite Fabrizio Grossi – Le Zariote arrivano in giornata sul piatto del ristorante e sono allevate a tre miglia dalla costa in acque di ‘categoria A’. Il consumatore locale le ha preferite anche a quelle francesi.”
Il caso della Zariota è paradigma di quanto sta accadendo in Italia. Il comparto dell’ostricoltura fatica a strutturarsi lungo l’arco della filiera, a partire dal regime fiscale con Iva al 22%, il triplo rispetto alla Francia, dove ad esempio non si distingue tra ostriche e baguette, entrambe al 6%. Eppure i dati indicano che l‘ostrica è sempre più trendy e prevedono un incremento del 5,5% del mercato mondiale (2023-2030), raggiungendo circa 10 miliardi di dollari. Una tendenza che include anche l’Italia.
“Dopo un certo ‘oscurantismo” in cui ci siamo dimenticati di essere storicamente un paese produttore, è in corso un movimento dal basso, fatto di iniziative singole di produttori già solidi nel settore dell’acquacoltura ma innovativi, che sperimentano il mercato delle ostriche, quasi sempre solo per la ristorazione locale. Qualcuno raggiunge il privato tramite la vendita online, ma sono casi sporadici di produttori particolarmente intraprendenti”, dice la Professoressa Elena Tamburini del Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Prevenzione dell’Università di Ferrara, che ha coordinato lo studio “Piano di rilancio dell’ostricoltura nazionale” commissionato tramite bando dal MASAF.
L’indagine appena conclusa restituisce una mappatura delle sei regioni italiane produttrici (Sardegna, Liguria, Veneto, Emilia-Romagna, Marche e Puglia) e un “censimento” degli ostricoltori, meno di una trentina. “Per l’Italia parliamo di una produzione di poco più di 200 tonnellate nel 2022, da 3 a 35 tonnellate massime per singoli produttori.
Numeri che faticano a rientrare nei grafici internazionali – dice Tamburini – Ma durante i due anni di lavoro abbiamo registrato grande entusiasmo, voglia di fare network e massa critica per completare i grandi buchi della filiera: come si ottengono le concessioni per gli allevamenti? Dove si trovano le attrezzature?
Come si soddisfano le esigenze della grande distribuzione, che richiede standard commerciali e approvvigionamenti costanti durante tutto l’anno? E come si ottiene il seme, venduto a tutta Italia dalla Francia, ad eccezione di Goro dove esiste l’unico impianto schiuditoio italiano? Dalla ricognizione è emerso un primo manuale di ostricoltura, con informazioni e consigli per un settore che valutiamo molto promettente, per gli indiscutibili e benefici impatti ambientali, economici e nutrizionali.”
C’è quella rosa del Delta del Po a cui si affianca quella Golden and Black della Sacca di Goro, quella verde di Portovenere, la San Michele bianca del Gargano e la Delicata di Sardegna.
“Circa il 98% della produzione è caratterizzata dalla Crassostrea Gigas, originaria del Pacifico, definita cosmopolita per la grande capacità di adattamento” dice Adele Munaretto, gastronoma ed enologa di AIOST, associazione nata nella primavera scorsa a conferma del crescente interesse per il settore.
“La nostra è la prima Associazione Italiana Ostricari, sorta per diffondere la cultura delle ostriche e formare una nuova figura professionale nella ristorazione, l’Ostricaro. Il panorama nazionale è fatto da aziende piccole, la raccolta è spesso manuale, mentre i francesi usano processi complessi e automatizzati. Con un’applicazione di telefonino gestiscono l’esposizione delle ostriche alle maree. Ma il nostro prodotto non ha nulla da invidiare, al contrario ha caratteristiche organolettiche e di gusto proprie, legate alla crescita in un mare più caldo e meno esposto alle maree.”
Certo, il mare delle ostriche è immenso e molto competitivo. Secondo i dati di EUMOFA (European Market Observatory for Fisheries), la Cina è di gran lunga il maggiore produttore globale, con l’85% del volume totale della produzione, seguita da Corea del Sud (5%), USA (3%), Giappone ed Europa (entrambi al 2%), a spartirsi il resto della torta. In Europa, è la Francia a fare la parte del leone: con l”82% della produzione è anche il principale esportatore, sia entro i confini UE che in Asia, dalla Cina continentale a Hong Kong. L’Italia conta per lo 0,2%. “Siamo rimasti silenti fino a 10-15 anni fa, ora abbracciamo un nuovo spirito pionieristico”, dice Tamburini.
E c’è anche chi, come Ciro Verde, enologo della tenuta Il IV Miglio di Napoli, rivendica il contributo storico della sua terra, i Campi Flegrei: “Dopo la fioritura in epoca romana nel Lago di Lucrino, la produzione venne ripresa nel 1700 dai Borbone nel vicino lago Fusaro – sottolinea – L’attività divenne così fiorente che un secolo dopo Napoleone III inviò il naturalista Jacques Marie Cyprien Victor Coste a redigere uno studio approfondito.
Nel suo Voyage d’exploration sur le littoral de la France et de l’Italie. Rapport sur les industries de Comacchio, du lac Fusaro, de Marennes et de l’anse de l’Aiguillon del 1855 denunciò la decadenza dell’ostricoltura della sponda atlantica, lodando invece le avanzate tecniche italiane, poi sapientemente sviluppate Oltralpe fino ai giorni nostri. Peccato che tutto questo sia andato perso. Ma a Napoli sicuramente qualcuno ricorda ancora l’aneddoto dell’Ostricaro fisico, il giovane venditore di strada laureato “dottore” (“fisico” appunto) dal re in persona per la bontà del prodotto. Ogni ostricaro napoletano si definiva tale fino agli inizi del Novecento, quando poi è scomparsa la produzione.”