AGI – A Milano i sei giudici della sezione specializzata per l’immigrazione sono ancora impegnati a smaltire le richieste di protezione internazionale, tra queste anche quelle di protezione speciale, che risalgono all’ondata migratoria del 2018-2019. Ciascuno di loro, secondo una stima suggerita all’AGI da fonti qualificate, ha a testa “circa duemila cause pendenti” relative alle impugnazioni presentate da migranti ai quali le Commissioni Territoriali hanno respinto in prima istanza la richiesta di protezione.
Il caso della protezione speciale
Quella speciale consiste in un permesso di soggiorno che spetta ai richiedenti asilo che non possano usufruire dello status di rifugiato, concesso a chi rischia la persecuzione per motivi sessuali, religiosi o etnici nel proprio Paese d’origine, o della protezione sussidiaria per le persone che, se tornassero in patria, correrebbero un rischio effettivo di subire “un grave danno”. La possibilità di ottenere la protezione speciale è stata abrogata dal decreto Cutro ma non retroattivamente. Questo significa che, vista l’estrema lentezza dell’iter, per molto tempo ancora i magistrati dovranno confrontarsi con le domande pendenti. Nel 2022 sono state 10856 le persone che si sono viste riconoscere la protezione speciale secondo i dati del ministero dell’Interno. A Milano ci sono tre Commissioni Territoriali, un numero che pare esiguo vista l’entità del lavoro da svolgere.
Dove si incagliano le cause
L’avvocato Gianluca Castagnino ha diverse cause risalenti nel tempo. C’è il caso di un suo assistito, A. C., che ha presentato ricorso nel febbraio del 2019 e solo quattro anni dopo gli è stato assegnato il magistrato che deciderà il suo destino in Italia. La prima assegnazione a un giudice risale al 12 marzo 2019, il 28 dicembre 2022 A.C, viene “ammesso come attore principale”. Altra vicenda. Il 10 gennaio 2020, il fascicolo su N.P. inizia la sua ‘corsa’ nei labirinti della giustizia con l’iscrizione a ruolo, il ‘punto zero’ di ogni procedimento civile. Solo il 27 aprile 2021 l’amministrazione si costituisce in giudizio, a giugno del 2023 cambia il giudice e il 13 luglio di quest’anno è stata fissata l’udienza.
Una norma del 2011 prevede che la Corte d’Appello debba decidere “entro sei mesi” dalla presentazione del ricorso, termine ampiamente sforato la gran parte delle volte. Alcuni migranti hanno chiesto e ottenuto un risarcimento in base alla legge Pinto. Nel 2021 il giudice di Catania, Giuseppe Alfonso, ha condannato il ministero della Giustizia a risarcire un cittadino maliano “per il superamento della ragionevole durata del processo” con una somma di 3200 euro.
La riforma Minniti aveva abolito nel 2017 la possibilità dell’appello lasciando solo la Cassazione come possibilità per chi si vedeva respingere la richiesta di protezione internazionale. “La normativa prevedeva la videoregistrazione degli interrogatori che non è mai stata realizzata – spiega l’avvocato milanese Paolo Oddi, esperto in materia -. La Cassazione ha poi precisato che, vista la delicatezza della materia trattata, fosse indispensabile la comparizione delle parti davanti ai giudici. Le sezioni specializzate in materia di immigrazione sono effettive solo da sei anni”.
Nell’attesa premiati i percorsi virtuosi dei migranti
Quanta alla lentezza del percorso, Oddi osserva che poiché per arrivare alla comparizione davanti alla Corte d’Appello, cioè all’inizio vero e proprio della causa, “ci vogliono 4-5 anni, molti migranti riescono poi a restare nel nostro Paese perché, quando arrivano davanti ai giudici, dimostrano di avere fatto un percorso virtuoso, trovando un lavoro stabile e costruendo dei legami e gli viene concesso un permesso speciale. Qualche giorno fa mi ha chiamato la moglie di un richiedente dal 2019, esausta per l’attesa. Anche per loro è difficile capire perché passi così tanto tempo”. Avere un permesso dopo molti anni, secondo il legale, non va visto solo come una possibile prospettiva di vantaggio per il migrante “perché comunque l’allungamento della procedura potrebbe averlo privato per molto tempo di un suo diritto”.
Le variabili per decidere
La concessione o meno della protezione passa attraverso un certo margine di discrezionalità dei giudici che sono chiamati a interpretare diverse “fonti autorevoli”, come spiega Oddi. “Il richiedente ha l’onere probatorio ma il giudice deve cooperare cercando dei riscontri. Se per esempio chi chiede la protezione dice che c’è stata una rivolta nel suo Paese, il giudice, così come anche la Commissione deve fare, controllerà anche da siti considerati credibili, dai media e da altri canali. Gli interrogatori spesso durano molte ore. La valutazione ha a che fare anche con la geopolitica”.
Qualche esempio portato dai legali milanesi: sì alla protezione sussidiaria a un ventenne ucraino che non voleva arruolarsi, no a un giovane iraniano che denunciava di aver subito angherie, non dimostrate secondo la Commissione, no a un albanese che raccontava di una persecuzione sulla base di ‘leggi’ non scritte tribali ancora vigenti in alcune zone del suo Paese.