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Attentato a Chinnici: quando Palermo divenne Beirut

Lug 29, 2023

In via Pipitone Federico, in un elegante quartiere residenziale, c’è la piacevole calma delle mattinate estive; la città è semivuota, molti palermitani sono già da tempo nella casa al mare: E’ il  29 luglio del 1983 Rocco Chinnici, nel suo appartamento al terzo piano, si è alzato presto, verso le cinque, come ogni mattina, e sta lavorando alle sue carte nello studio, con il balcone aperto. Forse, affacciandosi per prendere un pò d’aria ha notato una 126, posteggiata proprio davanti al portone.

Sono le otto e la via adesso è un pò più animata: il panificio, al piano terra dello stabile, ha alzato le saracinesche, il portiere Stefano Li Sacchi ha aperto la portineria. Arriva la blindata di Chinnici, un’Alfetta beige, guidata da Giovanni Paparcuri, e l’Alfasud dei Carabinieri della scorta, con a bordo il maresciallo Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta.

C’è anche una gazzella dei carabinieri che da qualche mese, da quando le minacce al giudice si sono fatte più gravi, ha il compito di rinforzare la sorveglianza nel punto forse più pericoloso del tragitto casa-ufficio. Davanti al portone c’è sempre la 126 posteggiata. Il consueto saluto affettuoso ai familiari e poi giù per le scale. E’ una mattina qualsiasi nella quiete dell’estate in città, quel ventinove luglio. Sono le otto e dieci. Una devastante esplosione scuote violentemente l’intero isolato. E’ la 126:è stata imbottita di tritolo e fatta esplodere con un comando a distanza nel momento in cui Chinnici, per poter salire sulla blindata, è costretto a passarvi accanto. E’ l’inferno. Palermo come Beirut, titoleranno i giornali.

Sulla strada, in mezzo alle carcasse delle auto ed all’acqua fuoriuscita dalle tubazioni scoppiate, si distinguono a fatica i corpi senza vita, devastati dall’esplosione. Oltre al magistrato, ci sono Trapassi, Bartolotta e Li Sacchi. Nell’auto di servizio, l’autista Giovanni Paparcuri, parzialmente protetto dalla blindatura, è gravemente ferito e privo di sensi.

Sopravviverà, ma senza mai superare del tutto i problemi fisici procuratigli dalla parziale esposizione all’onda d’urto. Ci sono decine di feriti, anche all’interno delle abitazioni. E tra i feriti due bambini. Era la preoccupazione più grande, per Rocco Chinnici, negli ultimi tempi, quella di poter coinvolgere in un possibile attentato un familiare, un passante, un uomo della scorta.

Se avesse potuto, avrebbe chiesto che altri uomini non morissero con lui. Per secondi lunghi come ore, dopo l’assordante fragore c’è un silenzio irreale su quella scena irreale. Poi le grida di dolore, di disperazione, le sirene di Polizia e Carabinieri con gli agenti che scendono dalle volanti e rimangono impietriti e sbigottiti senza sapere cosa fare. Più tardi la rabbia, il brusio, le telecamere, i curiosi, i rilevamenti, le autorità, gli amici, i parenti, alcuni cittadini.

Una ferita profonda alla coscienza civile della città, questa volta anche a quella parte allora solitamente indifferente o convinta che, in fondo, chi fa questa fine, anche se nel giusto, se la va un pò a cercare. Non più soltanto pochi grammi di piombo e polvere da sparo. Ma tritolo. A quintali. E non si resta indifferenti. Uno scenario impensabile in un paese civile. Eppure destinato a ripetersi. Altre due volte: il 23 maggio 1992 per Giovanni Falcone e il 19 luglio 1992 per Paolo Borsellino.

Era stato proprio Rocco Chinnici a costruire il pool antimafia del quale falcone e Borsellino sarebbero stati i protagonisti dopo la sua morte. Chinnici nasce a Misilmeri, nel palermitano, il 19 gennaio del 1925. Entra in magistratura nel 1952. Dopo un lungo periodo di permanenza a Partanna come pretore, nell’aprile del 1966 si trasferisce a Palermo, giudice dell’ottava sezione dell’Ufficio Istruzione del Tribunale. Dai primi anni Settanta inizia ad occuparsi di delicati processi di mafia. Nel 1975 diviene Consigliere Istruttore Aggiunto.

Quattro anni dopo, nel 1979, è nominato Consigliere Istruttore, proprio negli anni in cui la mafia sferrava un terribile attacco allo Stato. Chinnici ha allora una intuizione che fa di lui un magistrato particolarmente moderno: progetta e crea, nel suo ufficio, un gruppo di lavoro, una scelta per allora rivoluzionaria e non ancora supportata da un apposito sostegno legislativo, dando forma a quello che sarà poi definito “pool antimafia”. Accanto a sé, Chinnici chiama due giovani magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ed è proprio con loro che mettee in cantiere i primi ati d’indagine di quelli che si caratteerizzeranno come i piu’ importanti processi di mafia degli anni Ottanta.

L’attività di Chinnici non si esaurisce, però, all’interno delle aule giudiziarie: è un magistrato impegnato a sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni, rivolgendosi, particolarmente, alle giovani generazioni. Quando Cosa Nostra lo uccide, ha 58 anni. Il maresciallo Mario Trapassi Trapassi Era nato a Palermo l’8 dicembre 1950. Appena diciannovenne si arruolò nell’Arma dei Carabinieri frequentando il corso di sottufficiale. Dopo il primo incarico operativo a Torino, dove lavoro’ subito a fianco del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel 1978, ottenne il trasferimento in Sicilia, prestando prima servizio a Termini Imerese e dopo a Palermo.

Nel difficile periodo degli omicidi di mafia, ben conscio del pericolo che correva, accettò l’incarico di capo scorta di Paolo Borsellino che, a sua volta, era da poco giunto all’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. Grazie all’efficienza ed alla capacita’ mostrate nel servizio, venne allora individuato per assumere il ruolo di responsabile della sicurezza del magistrato che appariva – in quel particolare momento – come il più esposto: Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. Si fece apprezzare per le sue doti umane oltre che per quelle professionali, diventando presto un amico – non solo un valido collaboratore – del magistrato. Lasciò la moglie e quattro figli, tutti in tenera età. E’ stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile.

L’appuntato Salvatore Bartolotta Bartolotta era nato a Castrofilippo, nell’Agrigentino, il 3 marzo 1935. Raggiunta la maggiore età si arruolò nell’Arma dei Carabinieri. Dopo aver prestato servizio nelle città di Caltanissetta e Cefalù, venne assegnato definitivamente al Nucleo Investigativo presso la Caserma Carini di Palermo. Fu proprio a fianco di Chinnici, allora giovane giudice dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, tra il ’71 e il ’73 che iniziò il servizio di scorta a personalità civili. Quando, alla fine degli anni settanta, Chinnici fu nuovamente sottoposto a misure di protezione, la richiesta dall’appuntato Bartolotta di tornare a scortare il giudice si incontrò con l’istanza di Chinnici, che lo indicava come il più adatto ad assolvere il delicato e rischioso compito di agente di tutela.

Lasciò la moglie e 5 figli in età infantile. E’ stato insignito della medaglia d’oro al valor civile. Stefano Li Sacchi Il portiere dello stabile in cui abitava Rocco Chinnici era nato il 2 giugno 1923 a Geraci Siculo. Nonostante l’intelligenza vivace, non potè proseguire gli studi che abbandonò da fanciullo per aiutare la famiglia nel lavoro dei campi. Dopo le nozze con Nunziata, la moglie che amò teneramente, si trasferì a Palermo, lavorando come portiere con responsabilità e senso del dovere, guadagnandosi la stima e la fiducia di quanti lo conobbero e, nell’espletamento della sua attività, quel tragico 29 luglio trovò la morte.

Ha dedicato la sua vita ai suoi affetti più cari: la moglie e la nipote Lucia, che ha allevato ed educato con l’affetto e la dedizione di un padre, ed a loro rimane il ricordo struggente della sua grande voglia di vivere, della sua allegria e della disponibilità d’animo nei confronti del prossimo. Chinnici, che con lui condivideva le origini rurali, lo stimava affettuosamente.

Probabilmente anche Stefano Li Sacchi era consapevole del rischio che correva nel trovarsi vicino al magistrato. Eppure ciò non lo indusse mai ad assumere un atteggiamento timoroso. Anzi ostentava con orgoglio il rapporto amichevole che aveva col giudice, spesso accompagnandolo fino allo sportello della “blindata”.

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