Qualche giorno fa, Gilberto Corbellini, nel recensire la traduzione italiana di “Contagi”, scritto da Kyle Harper, ha giustamente sottolineato come quel libro formidabile sia “una storia delle malattie infettive non umanocentrica”, in cui “protagonisti sono i parassiti e i tratti biologici che consentono a questi padroni del pianeta di invadere e usare il mondo umano come ambiente dell’adattamento”. Caso vuole che io abbia terminato la lettura di un libro davvero consonante a quello recensito da Corbellini, ovvero “Pathogenesis – how germs made hystory”, scritto da Jonathan Kennedy, che insegna salute pubblica globale al Queen Mary University di Londra. Anche in questo caso, il lettore ha fra le mani una storia delle malattie infettive in cui la prospettiva è quanto di più lontano dalla visione antropocentrica cui siamo avvezzi, a fronte di una numerosa e ben selezionata mole di dati scientifici: i parassiti, per dirla in breve, non sono accidenti interferenti con il flusso delle cose umane, come un meteorite che cada provocando grandi devastazioni, senza però ulteriormente interferire. Sono invece parte viva della costruzione di tutti gli eventi storici, in un modo che vorrei qui approfondire con il lettore, e che riguarda non solo la nostra visione scientifica del mondo, ma soprattutto, e più ancora, il modo in cui ci raccontiamo la nostra stessa storia, e i pregiudizi e le prospettive erronee con cui lo facciamo.
In generale, chiunque si fermi un attimo a riflettere sui fatti che la scienza moderna ci presenta, non può che concordare su quanto la nostra specie sia insignificante nel gran quadro generale delle cose: nessuno credo possa ragionevolmente obiettare all’idea che siamo poco più di un epifenomeno recente e assolutamente periferico e marginale nell’universo, e, anche sul nostro pianeta, non rappresentiamo altro che un temporaneo rametto evolutivo in un gruppo di primati completamente estinto, con un impatto sul nostro pianeta che, per quanto sia profondo e cominci a mettere in pericolo la nostra stessa esistenza, non è certo maggiore di quello delle prime specie fotosintetiche o di certi insetti o funghi o di quello del sole; il tutto al netto della nostra grande e comprensibile ammirazione per le nostre facoltà cognitive e per il nostro sapere, i quali entrambi, tuttavia, sono ininfluenti e non necessariamente di particolare interesse per qualunque specie diversa dalla nostra stessa.
Eppure, nonostante questo tipo di coscienza sia piuttosto diffuso e dia persino origine ad ideologie francamente impalatabili, noi ancora intendiamo la natura e il nostro pianeta (e forse il cosmo) come una specie di quinta teatrale sulla quale si dipana la storia per antonomasia, ovvero quella dell’umanità. Tradizionalmente, si raccontava nei libri di testo come singoli individui, generalmente di sesso maschile, avrebbero determinato tale storia, sia in positivo che in negativo: tutti conosciamo Alessandro Magno, Napoleone, Stalin o Hitler, e qualunque libro di storia dedica ampio spazio alle loro vicende e al presentarli come artefici di cambiamenti e di destini di vaste moltitudini umane (peraltro spesso concentrandosi sulla storia dell’occidente e dimenticando le donne). L’alternativa a questa visione storiografica come biografia dei grandi uomini consiste nella visione moderna, insegnata nelle scuole da tempi abbastanza recenti, che potremmo dire è la visione ad esempio di un Legoff o di un Febvre: lo sguardo si concentra sulla vita quotidiana e sugli sforzi di grandi masse di persone che spesso lottano contro circostanze e oppressioni di vario genere, così introducendo un quadro di diversa natura, quello di una storia dell’umanità che è fatta di tendenze collettive, molto difficilmente prodotto di singoli individui, ed in cui innovazioni, atti specifici e cambi culturali non sono mai riconducibili all’azione di singoli eroi o campioni. La storia, in questa visione moderna, nasce dal basso e dalle circostanze, e non dall’azione di singoli individui speciali.
Il libro di Kennedy, forse in misura ancora maggiore di quello di Harper, allarga ancora la visuale: la storia, ci insegna l’autore, non è affatto il prodotto esclusivo dell’azione dell’umanità, per quanto inclusivi e generali si voglia essere considerando tutti gli esseri umani mai vissuti. Virus, batteri e microbi di ogni sorta, in grado sia di attaccare il corpo umano che quello delle piante e degli animali da cui dipendiamo, oltre che i nostri corpi fisici individuali, hanno continuamente influenzato anche la formazione del corpo sociale, politico e culturale; e la cosa è avvenuta e avviene in maniera continua, perché, nell’inseguimento darwiniano fra il genotipo di popolazioni di trilioni di patogeni in rapidissima mutazione, da una parte, e l’altrettanto rapidissimo adattamento culturale e del fenotipo esteso di centinaia di migliaia, prima, e oggi di miliardi di esseri umani, la gara è aperta, e la sua direzione è indeterminata. Volendo approfondire un aspetto che l’autore lascia all’intuito del lettore, la verità è che viviamo in un gigantesco meccanismo di retroazione darwiniana: ogni nostro adattamento ai patogeni, ogni nostra temporanea vittoria, non è altro che un fattore selettivo che porta alla differenziazione di nuovi patogeni, ovvero di nuova materia organizzata dal codice genetico di molteplici replicatori darwiniani, in grado di riguadagnare rapidamente il terreno perduto e di profittare di nuovo delle fonti di composti a bassa entropia che i nostri corpi e quelli degli organismi domestici sono in grado di provvedere.
Inoltre, vorrei qui aggiungere, nella stessa corsa non entrano solo i microrganismi patogeni, ma anche i nostri commensali e simbionti: questi, per competizione, possono tenere a proprio vantaggio a bada i nostri patogeni (si pensi al ruolo dei virus nel controllo dei ceppi virulenti di batteri nel nostro intestino o a quello dei batteri simbionti nel contribuire al corretto sviluppo del nostro sistema immunitario), oppure possono influenzare il nostro comportamento, o anche possono consentire l’adattamento di popolazioni umane al consumo di risorse alimentari tipiche di ambienti e condizioni specifiche. Questa interazione continua con il microbioma interno ed esterno a noi, interazione di cui la malattia e le epidemie sono solo una delle possibili manifestazioni, ha influenzato fortemente l’intero percorso storico della nostra specie, come sia Kennedy che Harper dimostrano ampiamente ed in modo scientifico: la nostra storia, cioè, è il percorso che abbiamo fatto insieme ad un’enorme quantità di microorganismi, e i fatti più importanti nel determinare quello che sta scritto con l’inchiostro nei libri di scuola sono stati scritti prima almeno in parte nel codice genetico di qualche particolare microorganismo. Non è la nostra storia a svolgersi, ma quella di un grande fiume di geni e di organismi in cui essi sono portati, di cui gli esseri umani sono motore attivo e veicolo passivo allo stesso tempo, nel grande ciclo di retroazioni che non consente di isolare un attore dall’altro.