AGI – “Fiori bianchi sul feretro della ragazza morta a Ostia. Una disgrazia secondo la polizia”. “La polizia ha scelto la versione della disgrazia. Molti punti oscuri”. Sono i due titoli che “Corriere della Sera”, da un lato, e “Paese Sera” dall’altro, dedicano il 17 aprile 1953 al ritrovamento di Wilma Montesi, 21 anni, romana, fidanzata, promessa sposa entro l’anno, figlia di un falegname, il corpo riverso sulla battigia di Tor Vajanica, a sud di Ostia, sei giorni prima, sabato 11 aprile. Fino ad allora dell’episodio non v’è alcuna traccia sui giornali.
Eppure da quest’oscura morte nasce il “caso Montesi”, ancora irrisolto a 70 anni di distanza, il delitto più clamoroso dal dopoguerra in poi, perché finisce per coinvolgere governo e opposizione, magistrati e giornalisti, prelati e poliziotti “e porterà la società politica democristiana sull’orlo di un baratro”, annotano gli storici.
In sé, divide l’Italia e gli italiani in due campi contrapposti mettendo in rilievo luci e ombre del loro carattere: sete di giustizia, moralismo, rissosità, mitomania, sospetto, intrigo. È il primo scandalo della Prima Repubblica, tant’è che 50 anni dopo, nel 2003, non manca chi lo accosti al “caso Tangentopoli”, esploso nell’Italia del 1992, intrecciando politica e cronaca e seppellendo pure la Prima Repubblica.
Il cadavere di Wilma Montesi viene ritrovato a Tor Vajanica la mattina dell’11 aprile, cullato dalle onde, privo di alcuni indumenti intimi, calze e reggicalze. Subito si pensa a un malore: la ragazza è forse svenuta, poi annegata, le correnti hanno trasportato il corpo. La tesi del “pediluvio”, accreditata dallo stesso questore di Roma, Ennio Polito, suscita però perplessità e i sarcasmi dell’opinione pubblica, per via della fretta con cui è accreditata. Come se prevalesse la voglia di chiudere presto il caso. Ma non viene scartata nemmeno l’ipotesi del suicidio.
I fatti. Subito dopo il pranzo del 9 aprile, Wilma incoraggia mamma e sorella ad andare al cinema, lei invece opta per una passeggiata ma se ne perdono le tracce. La portinaia la vede uscire, c’è chi l’avvista sul treno per Ostia in compagnia d’un uomo, ma sono testimonianze confuse. Di andare a Ostia, Wilma non ha mai parlato. Le indagini riprendono i primi di maggio, e il “Roma” di Napoli, quotidiano monarchico, si chiede: “Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi?” L’autore del fondo è il direttore del periodico d’estrema destra “Il merlo giallo” su cui appare una vignetta allusiva: il reggicalze sparito è portato in questura da “piccioni” viaggiatori. “Paese Sera” incalza: “Gli indumenti intimi di Wilma Montesi sono stati consegnarti dal ‘biondino’ alla polizia/ Il giovane sarebbe il figlio di una personalità politica”.
Scrivono Ingrao, Togliatti, Nenni e Missiroli
Attilio Piccioni è il democristiano vicepresidente del Consiglio, il “biondino”, suo figlio Piero, è un musicista assai noto del mondo Rai, del cinema, del jazz e del jet set. A indicare il suo nome è il settimanale comunista “Vie nuove”. Da dove spunti il nome non si sa. Piccioni querela e le smentite del questore sembrano chiudere il caso. Del quale, per mesi, non si parla più, per poi rispuntare il 6 ottobre 1953 su un rotocalco romano, “Attualità”, diretto da Silvano Muto, giornalista non noto. L’articolo ha l’effetto di scatenare la magistratura che, tramite il procuratore capo di Roma, Angelo Sigurani, denuncia il giornalista per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”.
In dicembre il magistrato archivia e, contestualmente, fissa il processo per diffamazione contro Muto, che nell’udienza del 28 gennaio 1954 accenna a “orge a base di stupefacenti” a Capocotta, vicino il litorale di Tor Vajanica, riserva di caccia amministrata da Ugo Montagna, marchese di San Bartolomeo. Questi, vicino a diverse personalità politiche e del mondo degli affari, ha un legame anche con Anna Maria Moneta Caglio, la figlia di un notaio milanese soprannominata ‘Cigno nero’ dalla giornalista Camilla Cederna per via del collo lungo, da mannequin, che spuntava bianco ed elegante dai pullover immancabilmente neri. Moneta Caglio, convinta di essere vicina alla verità sulla ragazza, consegna un memoriale a un gesuita che lo fa arrivare al ministro dell’Interno Amintore Fanfani.
L’esponente dc fa sentire la donna da un colonnello dei carabinieri per due volte. Quando Muto racconta questi segreti e intrecci nell’udienza per la diffamazione di gennaio, il “caso Montesi” riesplode come una bomba. L’opinione pubblica si divide tra colpevolisti e innocentisti. Montagna si difende e dice di non aver mai conosciuto Montesi, il questore di Roma ribadisce la tesi del pediluvio, Moneta Caglio si nasconde temendo d’esser uccisa.
In quei giorni il caso di cronaca s’intreccia col tentativo fallito di Fanfani di formare un governo monocolore. Nasce invece un quadripartito, Fanfani è fuori, Attilio Piccioni agli Esteri, Scelba premier e al Viminale. Il caso investe pure il Parlamento con l’interrogazione del missino Franz Turchi che si rivolge a Scelba per chiedere cosa intenda fare per tranquillizzare Parlamento e opinione pubblica. Sui giornali scrivono anche Ingrao, direttore de ”l’Unità”, Palmiro Togliatti segretario del Pci, il socialista Pietro Nenni, il direttore del “Corriere” Mario Missiroli per dire nel suo primo articolo di fondo che l’affare Montesi “è qualcosa di più di uno scandalo giudiziario (…) è un avvenimento politico che impegna tutta la democrazia italiana“.
Montesi diventa il primo caso mediatico
Il 19 marzo ’54 Moneta Caglio, in tribunale, fa nuove rivelazioni. Pur negando di aver mai partecipato a festini a base di sesso e droga che si tenevano a Capocotta, indica l’ex amante Montagna e Piero Piccioni come i responsabili della morte della ragazza. Il 21 il tribunale sospende il processo per diffamazione contro Muto e i magistrati avviano un’istruttoria formale sulla morte di Tor Vajanica; il 19 settembre Attilio Piccioni si dimette dalla Farnesina quando il figlio Piero viene arrestato per omicidio colposo, per altro difeso dagli stessi genitori della vittima.
Lo “scandalo Montesi” è ormai fulcro di lotta politica. Tirato in ballo da un articolo è pure lo zio della ragazza, Giuseppe Montesi, sospettato per il morboso attaccamento a Wilma, ma in pochi giorni “l’operazione Giuseppe” si sgonfia. Il 16 novembre scoppia un’altra bomba: il professor Giuseppe Sotgiu, presidente comunista della Provincia di Roma, viene fotografato davanti al civico 15 di via Corridoni, casa d’appuntamenti frequentata dalla moglie. Le sinistre accusano il colpo. Il 19 novembre Piccioni e Montagna escono da Regina Coeli in libertà provvisoria. A fine anno le polemiche si fanno meno incandescenti ma l’“affaire Montesi” va avanti fino al 27 maggio 1957 quando la corte d’assise di Venezia assolve con formula piena Piccioni, Montagna, Polito e altri nove imputati minori.
A rimetterci è Moneta Caglio, che paga caro le “false incolpazioni” rivolte a Piccioni e Montagna con una condanna a due anni e mezzo di reclusione per calunnia. Il processo dura oltre quattro mesi e per tutto il tempo quotidiani e settimanali non fanno mancare al pubblico davvero nulla, scrivendo sulla vicenda lenzuolate di pagine. È il primo grande processo mediatico. La sola tiratura dei giornali della capitale “cresce, nei periodi di punta dello scandalo, da un minimo del 50% al 200%”. La parte del leone, tra i quotidiani del pomeriggio, la fa “Paese Sera”.
Nasce anche un modo nuovo di “fare giornalismo”, tra indiscrezioni, investigazione e scavo, talvolta morboso, nella vita delle persone coinvolte o solo lambite dalla vicenda. Sullo sfondo, però, resta sempre la morte di una ragazza, un giallo che resterà per sempre insoluto. Negli anni tutti i protagonisti della vicenda vengono a mancare. Tra questi, il marchese Montagna che muore nel 1990, a 80 anni.
Piccioni, diventato uno dei più noti autori di colonne sonore per il cinema italiano, specialmente nel campo della commedia all’italiana, dove crea un formidabile sodalizio umano e professionale con Alberto Sordi, si spegne a Roma nel 2004 all’età di 83 anni. Il 13 febbraio del 2016, a 86 anni, scompare Moneta Caglio, nella sua residenza a Caponago, nella provincia di Monza e Brianza.
Solo tre anni prima la sesta sezione penale della Cassazione aveva dichiarato inammissibile il ricorso della donna contro l’ordinanza con cui la corte d’appello di Perugia, il 23 giugno 2012, aveva respinto la sua istanza di revisione della condanna per calunnia. Nel rivolgersi alla Cassazione, la signora chiedeva l’assoluzione “perchè il fatto non sussiste”, definendo la sentenza di condanna a suo carico viziata da “mancanza di equità, imparzialità, indipendenza e falsità”. Una sorta di “proclamazione di innocenza”, dunque, che i supremi giudici avevano ritenuto assolutamente inidonea ad annullare quel verdetto di condanna.