Ricordarlo in poche parole non è semplice, perché raccontare il suo lavoro vuol dire raccontare la complessità delle sfide che lo psichiatra ha affrontato in più di cinquant’anni di impegno professionale pratico. Pratico è forse l’aggettivo più utile per definire il contributo di Franco Rotelli, venuto a mancare ieri. Un riformatore, capace a livello locale di costruire i servizi sanitari extra-ospedalieri (i Centri di Salute Mentale sulle 24 ore) che rivoluzioneranno l’approccio al disagio mentale, sul solco di quella messa tra parentesi della cosiddetta malattia mentale, inaugurata dall’amico e collaboratore Franco Basaglia. Grazie al suo lavoro nacque il cosiddetto modello Trieste: una rete di servizi sanitari e sociali extraospedalieri, formali e informali, in grado di includere chi è troppo diverso per reggere una normalità troppo spesso data per scontata e non messa a tema dal senso comune. Attraverso questo lavoro, si passò dalla grande istituzione, il manicomio – enorme contenitore indifferenziato del disagio della popolazione triestina – a un rete di servizi capace di intercettare i bisogni delle persone in cura e fornire risposte il più possibile su misura della persona (e non della malattia).
Questa trasformazione partì da un gesto rivoluzionario: ascoltare i “matti”, prenderli sul serio. Questo portò ad aprire il vaso di Pandora del vecchio manicomio: luogo di internamento piuttosto che reale spazio di cura. Da quel gesto iniziò il cambiamento di paradigma che portò a innovare e inventare nuovi servizi, nuove possibilità di intervento. Prendendo sul serio le persone, anche la malattia mentale diveniva più intelligibile. Tornava a essere un fenomeno affrontabile da una comunità di persone. Da quel gesto, si aprì la strada alla complessità e divennero evidenti fattori che ormai diamo tutti per scontato: l’impatto che il contesto socio-culturale ed economico hanno sulla salute mentale e fisica di una persona. Rotelli fu il tecnico, l’amministratore, il dirigente, che mise le istituzioni al servizio dei cittadini. Capace di rendere il managment sanitario un mezzo e non un fine di quelle che diverranno le attuali aziende sanitarie e di renderlo un argomento interessante, se messo al servizio dei bisogni e dei desideri delle persone.
Perché è importante ricordarlo? Innanzitutto, per la sua capacità di trasformare i sogni in progetti realizzabili. E questa è un’arte che richiede altissime competenze professionali. Il modello Trieste ha avuto enormi difficoltà a replicarsi: problemi di sostenibilità economica, problemi nel processo di transizione dal manicomio ai servizi sul territorio. Studiando il lavoro di Rotelli, è evidente come sia difficile raccontare il mix di competenze e metodi che hanno reso possibile la deistituzionalizzazione triestina, cioè la possibilità, per le persone che fanno fatica a essere autonome, di continuare a svolgere la propria vita nella propria abitazione, nel proprio quartiere, continuando a ricevere quelle cure specialistiche di cui hanno bisogno a livello territoriale. Ovvero, senza essere costrette ad andare a vivere in grandi e anonimi istituti, che inevitabilmente tolgono identità e possibilità. Come scriveva lui stesso, “Non c’è riabilitazione del paziente psichiatrico senza riabilitazione della psichiatria, senza deistituzionalizzazione della stessa”.
La cura, quindi, travalica le stanze chiuse dei professionisti della psiche e passa attraverso i luoghi della comunità e della città: attraverso il lavoro (con lui nacquero e si svilupparono le prime cooperative sociali), l’abitazione (le prime case “umane” in sostituzione di anonimi posti letto), l’arte, il teatro, il protagonismo delle persone oppresse da diagnosi stigmatizzanti. Restituita la soggettività, e la dignità alle persone, la terrificante malattia mentale diveniva affrontabile. E si evitavano le catastrofe esistenziali. Questa la scoperta, a tratti sconcertante, del lavoro svolto a Trieste, riassumibile nel provocatorio slogan “Impazzire si può”. Su questo solco nasce l’idea che gli unici interventi sanitari appropriati siano quelli che sanno rispettare e vedere la persona che si ha di fronte, oltre le diagnosi, lo stigma e i pregiudizi.
Dietro a queste parole, tantissime storie: storie di alberghi di lusso gestiti dagli assistiti, non solo in Italia ma anche ai Caraibi, o la rivoluzione di un un manicomio divenuto un parco e uno spazio di sperimentazione, sempre aperto, nel cuore di Trieste. Rotelli riuscì a portare trasformazioni di tale portata anche in contesti ben più difficili, come nell’isola greca di Leros, attivando la stessa comunità europea a inizio anni Novanta.
Oggi è importante continuare il suo lavoro: innanzitutto perché c’è la tendenza a vedere i servizi sanitari e socio-sanitari come entità fisse, immutabili. In realtà sono entità storiche, soggette a cambiamenti, invenzioni, movimenti concreti di professionisti e persone. Ripercorrendo la sua storia, è possibile rintracciare gli elementi che hanno reso possibile il modello Trieste e dunque esportarlo altrove. Rotelli non si fermò alla salute mentale ma negli ultimi due decenni della sua carriera portò questo cambio di prospettiva nella sanità tutta, sviluppando progetti innovativi, capaci di rispondere realmente ai bisogni di chi vive un problema di salute complesso o cronico. Scriveva: “la fondamentale contraddizione del nostro tempo è quella tra istituzioni chiuse e istituzioni aperte e lavorare su questa dialettica dovrebbe essere un impegno prioritario a livello politico, etico, scientifico, nelle organizzazioni sociali e nei rapporti interpersonali”. Con l’assistenza socio-sanitaria inventata dal basso a Trieste, da operatori e cittadini in un lavoro durato decenni, e da lui formalizzato in modo elegante e concreto nell’ostico linguaggio burocratico-amministrativo di un’azienda sanitaria, forse la pandemia che abbiamo appena vissuto avrebbe fatto meno vittime. Se invece dei grandi contenitori sanitari – che in realtà rispondono impropriamente a bisogni assistenziali negati – avessimo avuto più piccoli appartamenti inseriti in reti comunitarie, i cosiddetti fragili sarebbero stati più al sicuro. Più in connessione con i servizi (extraospedalieri) e con i propri cari che, al di là di ogni cura specialistica, danno senso all’esistenza e alla vita di una persona.
Spesso si parla di umanizzare la sanità. Continuare il lavoro di Franco Rotelli vuol dire non fermarsi a vuote retoriche. Vuol dire fornire un corpus di conoscenze pratiche per dare gambe a questo intento in quella che può essere definita una vera e propria “scienza dell’attuazione”. Scienza da applicare in contesti concreti, con persone concrete. Spesso si parla di mancanze di risorse umane ed economiche nella sanità. Il lavoro di Rotelli ci pone in una prospettiva diversa, in cui l’ascolto delle soggettività di una città che si prende cura e che sa includere tutti, ci fa scoprire improvvisamente meno soli e più ricchi. Questo l’insegnamento pratico di Franco Rotelli, che non va dimenticato. Questa l’enorme eredità del suo lavoro. Da continuare.
Edgardo Reali è psicologo clinico, psicoterapeuta e project manager in ambito sanitario e sociale.