AGI – Cinquanta anni fa nasceva l’Iva, una delle imposte più odiate e più evase dagli italiani. Ispirata all’esperienza francese della ‘Taxe sur la valeur ajoutee‘, l’imposta sul valore aggiunto è entrata in vigore il 1 gennaio 1973 e di strada, nel corso del tempo, ne ha compiuta, passando dal 12 al 22 per cento.
Temuta dai commercianti, è considerata l’imposta della discordia: tutti i governi in un modo o nell’altro hanno dovuto ‘farci i conti’. Quando il bilancio traballa, scattano i temuti aumenti. Negli anni passati molte maggioranze hanno tremato sotto la spada di Damocle delle clausole di salvaguardia, meccanismi automatici di aumento delle aliquote Iva in caso di sforamento degli obiettivi di deficit. L’Italia è da sempre un sorvegliato speciale di Bruxelles, che ci chiede di rientrare entro precisi limiti di bilanci, e spesso le clausole sono state la via d’uscita che consentiva di rimandare le scelte difficili.
Da allora tutti le hanno impiegate e hanno lasciato agli eredi il compito di “disinnescarle”. Nata come tributo di matrice comunitaria, l’Iva ha rappresentato il primo passo verso un Fisco ‘europeo’, nel percorso di realizzazione del mercato unico. L’obiettivo era l’armonizzazione delle disposizioni tributarie dei vari Stati membri e ne e’ nata un’imposta indiretta, proporzionale e sul consumo, neutra per gli operatori economici.
Come detto, a fare da apripista è stata la Francia dove, a partire dagli anni ’50, si optò per una imposta sul valore aggiunto applicabile a ogni stadio del ciclo produttivo e commerciale, cui fu affiancata una seconda imposta sui consumi per le prestazioni di servizio, però con un sistema cumulativo. Germania e Regno Unito, anche se in modo diverso, seguirono l’esempio. Da noi, il processo sulle imposte sui consumi è stato più lento in quanto fino agli anni settanta vigeva l’Ige, Imposta generale sull’entrata, un tributo a cascata che colpiva ogni stadio della produzione. Solo successivamente e’ arrivata l’Iva, che colpisce il “valore aggiunto”, cioe’ la differenza tra il costo delle materie prime e di produzione di un bene o di un servizio e il prezzo di vendita.
L’imposta sul valore aggiunto nasce in Italia nel 1973 con un’aliquota ordinaria fissata al 12%. Nel 1977 è passata al 14%, nel 1980 è salita al 15% e nel 1982 al 18%. Dopo sei anni di stabilita’, nel 1988 si è arrivati al 19% e il primo ottobre del 1997 è stata portata al 20%. Il 17 settembre 2011, dopo circa 14 anni di “tregua” l’aliquota ordinaria è passata al 21%. E dall’ottobre del 2013, ha raggiunto il 22%, superando alcuni dei principali paesi europei: in Germania è al 19%, in Francia al 20% e in Spagna al 21%.
Ma ciò che i contribuenti faticano a capire sono le aliquote ridotte, ovvero le differenze previste per specifici beni e servizi: il 4% ad esempio, per alimentari, bevande e prodotti agricoli, il 5% per pannolini e latte in polvere e il 10% per i medicinali. Ma l’Iva non è solo l’imposta piu’ odiata, è anche quella più evasa. All’Italia va infatti la maglia nera sul fronte del mancato gettito, visto che ogni anno ‘scompaiono’ oltre 26 miliardi di euro. Seguita dalla Francia, con un valore che rappresenta pero’ la meta’ di quanto evaso da noi, e dalla Germania.