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Che fine ha fatto il vaccino “invitaliano”?

Ott 12, 2022

Ricordate il vaccino di Reithera, pomposamente presentato in conferenza stampa come la soluzione italiana all’immunizzazione contro SARS-CoV-2, su cui numerosi si erano però addensati dubbi di ogni sorta, da quelli scientifici a quelli amministrativi, fino alla bocciatura dell’operazione di finanziamento pubblico ricevuta dalla Corte dei Conti

Bene: è stato appena depositato un preprint, che finalmente rende noti i dati e i risultati ottenuti durante lo studio di fase 2 condotto nel 2021, quello che avrebbe dovuto dimostrare efficacia e utilità del vaccino GRAD-CoV2 basato sull’utilizzo di un adenovirus da gorilla. Il vaccino è risultato ben tollerato e immunogenico, e per molti versi simile al vaccino di Astra Zeneca, basato su adenovirus di scimpanzè dal punto di vista dell’induzione sia di anticorpi che di risposta cellulo-mediata.

D’altra parte, i dati di efficacia sono indisponibili, perché il trial clinico, per ragioni non molto ben comprensibili nel testo, è stato reso non cieco a partire dal giorno 57 della sperimentazione, rendendo impossibile la transizione alla fase 3 dello studio e quindi la reale valutazione dell’efficacia del prodotto. D’altra parte, soggetti arruolati nello studio, comprensibilmente, hanno provveduto quanto prima a iniettarsi una dose di un vaccino la cui efficacia fosse accertata; questo è il risultato del tardivo sviluppo del vaccino di Reithera, rispetto agli altri prodotti, che rendeva difficile sostenere eticamente lo studio in presenza della pandemia e di prodotti già dimostratamente efficaci, come per altro si era a suo tempo segnalato.

 

Gli autori, correttamente, si aspettano che il prodotto di cui oggi abbiamo finalmente qualche dato in più, non sia di nessuna efficacia contro Omicron, e difatti scrivono che esso oggi “ha un valore limitato o nullo alla luce prevalenza di Omicron”; diciamo, quindi, che da questo punto di vista l’investimento, pubblico e privato, si è rivelato un completo fallimento, non perché da un punto di vista scientifico non fosse valido, ma per le note vicissitudini che hanno portato alla tardiva e arbitraria sua selezione, al suo scarso e arbitrario finanziamento e, insomma, a causa del tipico modo di fare della politica, che crede sia possibile prendere scorciatoie, facendo scelte arbitrarie e abbandonando ogni trasparenza, allo scopo di ottenere vantaggi vari per sé e per i propri sodali persino quando si tratta di ottenere un vaccino.

 

Però, nonostante l’esito di questa bruttissima storia, possiamo trovare nella conclusione del lavoro almeno un barlume di positività, rivendicato giustamente dai ricercatori che si sono impegnati nel progetto. Il tipo di vettore utilizzato, un adenovirus di scimmia come quello di Astra Zeneca, ha dei vantaggi indubitabili in termini di flessibilità, costi e potenzialità nello sviluppo di nuovi vaccini. Il progetto fallito del “vaccino invitaliano” ha perlomeno consentito di testare una piattaforma tecnologica e concettuale che potrebbe rivelarsi molto utile per il nostro paese, se invece di dismetterla o peggio di abbandonarla nelle grinfie della politica, si pensasse a un serio sviluppo su un periodo di media durata.

Certo, non è possibile pensare che una piccola azienda, già duramente provata dalla sconsiderata gestione politica del progetto COVID-19, possa da sola rimettersi in pista; ma quante sono le piccole aziende italiane, con una tecnologia proprietaria, utile a produrre i vaccini che potrebbero servirci domani?

Dovremo per sempre dipendere dalla contrattazione con entità di altri paesi, oppure, magari prendendo esempio da paesi come Cuba e dalla molteplicità di vaccini che questi hanno sviluppato, non sarebbe ora che il pubblico in certi settori strategici non recuperasse un ruolo guida, pianificando il futuro invece di rincorrere gli altri a guaio avvenuto?

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