AGI – Implora pace ai potenti per amore dei loro stessi popoli, avverte che l’escalation nucleare è lì, a un passo. Come ai tempi dei missili di Cuba, come quando risuonò l’allerta atomica nei giorni dello Yom Kippur del 1973.
Chi lo avrebbe mai immaginato: Papa Francesco, l’uomo della Fraternità Universale, il profeta dell’armonia con il Creato, costretto a chiedere a mani giunte che ci si fermi, che scatti finalmente una tregua, che le menti esaltate dal delirio di violenza e di potere tornino in sé e che le vittime dell’aggressione accettino la razionalità e la ragionevolezza del negoziato.
Da sette mesi il mondo balla sull’orlo dell’Armageddon, nessuno sembra rendersene conto. Anche quelle potenze che non sono coinvolte direttamente nel conflitto, ma la cui parola conta e non poco, sappiano che fino ci sono da “temere conseguenze incontrollabili e catastrofiche a livello mondiale”. Nessuno si salverebbe.
Se nel suo Angelus, poco rituale e molto sentito, Bergoglio si rivolge direttamente solo a Putin e Zelensky, è facile immaginare chi siano gli altri destinatari: gli Stati Uniti, dove si pondera già quale risposta dare al nucleare tattico russo; la Cina, in questo momento l’unica potenza che pare in grado di esercitare una qualche influenza sugli aggressori.
Colpiscono, tra le altre cose, due particolari. Il primo: al presidente russo si impetra la fine dell’inutile macello “per il bene del suo stesso popolo”, come a ricordargli che una decisione avventata porterebbe morte e distruzione senza precedenti fin sotto le mura rosse del Cremlino.
Il secondo: non c’è, a differenza di altri interventi, un richiamo alla possibilità di recarsi di persona a Mosca come a Kiev. Non certo una resa, ma forse la presa d’atto che i tempi non sono ancora quelli. Il gesto profetico, pertanto, lascia il posto alla richiesta di un intervento diplomatico, alla speranza che si attivino canali e si aprano porte lasciate a impolverarsi negli ultimi decenni, quando tutti (anche a Washington) erano convinti di poter fare senza il coinvolgimento della comunità internazionale.
“Che cosa deve ancora succedere? Quanto sangue deve ancora scorrere perché capiamo che la guerra non è mai una soluzione, ma solo distruzione? In nome di Dio e in nome del senso di umanità che alberga in ogni cuore, rinnovo il mio appello affinché si giunga subito al cessate-il-fuoco” grida il Papa, che per una volta rinuncia alla catechesi del Vangelo e dedica tutta la riflessione dell’Angelus alla guerra in Ucraina.
Non ha quella rabbia composta che Wojtyla mostrò nel 2003, rivolgendosi ai “giovani leader” pronti a marciare, con superficiale entusiasmo, verso Bagdad. Il suo è un intervento quasi da profeta disarmato, che richiama nei toni e nelle parole l’appello di Montini agli “uomini delle Brigate Rosse” pronti alla più malvagia delle azioni.
O, ancora di più, il discorso di Paolo VI all’Onu, all’epoca della guerra del Vietnam: lo si sarebbe scoperto solo anni dopo, ma anche allora una superpotenza finita impantanata in una risiera valutava l’utilizzo dell’atomica. Fu, quella testimonianza, nelle parole dello stesso Montini “l’epilogo di un faticoso pellegrinaggio in cerca d’un colloquio con il mondo intero” il cui la Chiesa si poneva come “portatrice di un messaggio per tutta l’umanità”, in quanto “esperta di umanità”.
Vale a dire: non giudice ma conoscitrice sapienziale, depositaria di quell’umanesimo cristiano che veniva offerto agli uomini, a tutti gli uomini di buona volontà. Allo stesso modo, oggi Bergoglio si pone come risorsa – anche diplomatica, se necessario alla causa superiore della pace – per una comunità internazionale incapace di trovare le ragioni della convivenza. Lo fa chiedendo e implorando, ma anche ricordando cosa si stia rischiando. Perché se quel tipo di conflitto esplodesse allora non basterebbe più nemmeno una Chiesa ospedale da campo.