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La guerra per attirare le grandi corporation. Paradiso Vanuatu, inferno Bolivia. La mappa mondiale

Ago 31, 2016

MILANO – Specchio specchio delle mie brame, chi ha le tasse più basse del reame? Risposta facile: un paradiso. Fiscale e non solo. Negli atolli delle Vuanatu, in piena Oceania, il balzello fiscale (tutto compreso) è solo l’8,5%. I cittadini e le imprese del paese, causa riscaldamento globale del pianeta, sono tra i primi a rischiare di finire sott’acqua. Per ora, però, si possono consolare con il regime erariale più generoso della terra: su 100 euro guadagnati, solo 8,5 se ne vanno in direzione dell’agenzia delle entrate, inclusi prelievi sui profitti, Imu e Tasi locali, bolli auto e Iva su consumi elettrici e dell’acqua. La hit parade delle tasse mondiali compilata dalla PriceWaterhouseCooper è la spiegazione – in numeri – del perché le grandi aziende mondiali, Apple e i big hi-tech in testa, hanno passato gli ultimi anni a cercare di mettere su casa (e sede legale) dove il fisco è meno esigente. L’Italia, per dire, viaggia al 191esimo posto, con un carico erariale del 64,8%. Gli Usa, pur con un molto più economico 40,9%, viaggiano oltre il 100esimo. E molte nazioni oltre l’Irlanda, da qualche anno a questa parte, hanno usato l’arma delle aliquote low-cost per provare ad attrarre aziende ed entrate dalle aree del mondo dove il fisco è più arcigno. La stessa Gran Bretagna, per dire, dopo il voto sulla Brexit ha minacciato un drastico taglio alle aliquote per le imprese per provare a tamponare la fuga di società e banche d’affari spaventate dall’addio all’Europa.

LA CLASSIFICA DEI PAESI A BASSA TASSAZIONELE MACRO AREE

Le prime fila della classifica Pwc sono occupate dal trionfo del “piccolo è bello”, mini-paesi – Brunei, Timor, Macedonia & C. – dove la leva delle tasse ridotte è pure utile per motivi di consenso interno. I primi veri e propri paradisi fiscali a portata di imprese (dotati cioè del minimo di infrastrutture necessarie per fare business) sono Qatar (11,3%), Kuwait (13%) e Arabia Saudita (15%), impegnate a diversificare le loro economie dal petrolio attirando servizi e tecnologie. Mentre Singapore (15esimo con il 18,4% di tasse totali) è la prima nazione ad aver avuto davvero successo con questa politica. Il Lussemburgo – finito non a caso pure lui nel mirino della Ue per le sue poltiche fiscali con lo scandalo Luxleaks – è al 20,1% di imposte con l’Irlanda “solo” 33esima con il 25,9%. I numeri però ingannano. L’appeal fiscale ha attirato a Dublino stuoli di avvocati e banchieri d’affari. Che studiando le pieghe delle normative nazionali e rimbalzando profitti tra Irlanda, Olanda e Bermuda (come con il famigerato metodo del “Double Irish-Dutch Sandwich”) hanno ridotto le aliquote reali a cifre da prefisso telefonico. Come dimostra lo 0,005% pagato dalla Apple – e da molti grandi big Usa, Google compresa – in Irlanda.

Tutti i settori e le aziende di mezzo mondo hanno partecipato a questa caccia al tesoro fiscale in giro per il pianeta. Uno studio dell’Fmi presentato meno di un anno fa ha certificato che le multinazionali hanno parcheggiato all’estero lontano dalle grinfie dell’erario 7.600 miliardi, quattro volte il Pil dell’Italia. E ogni anno, dice l’Ocse, sottraggono 250 miliardi al fisco. In Lussemburgo arriva ogni anno un flusso di investimenti esteri pari al 22% del pil. E non sono certo investimenti industriali. Ad Amsterdam ci sono 23mila aziende domiciliate presso caselle postali. L’America stessa, per recuperare il terreno perduto, sta istituendo vere e proprie zone franche fiscali (dal Deleware al Nevada) dove le tasse sono quasi a zero e la riservatezza al 100%. A fare “ottimizzazione fiscale”, come la chiamano gli esperti, ci sono le grandi aziende dei beni di consumo, le banche italiane con i fondi d’investimento gestiti da Dublino, il boom di realtà – come le holding degli Agnelli – trasferite in Olanda. Tutto legale, naturalmente, in un mondo in cui le aliquote sono strumento di concorrenza anche all’interno di quello che dovrebbe essere un mercato unico come l’Europa. Anche se il castello di carta del rimpiattino fiscale rischia di essere smontato ora dall’affondo della Ue contro la Mela di Apple. A ridere saranno Bolivia (tax rate all’83,7%) e le Isole Comores (ultime con un improbabile 216%. Da oggi, forse, sono finalmente un po’ più competitive.

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