AGI – Quando gli agenti della Squadra mobile lo presero, a Cannatello, località di mare a due passi da Agrigento, Giovanni Brusca era col fratello Enzo Salvatore e con le rispettive famiglie. Il figlio del boia di Capaci aveva cinque anni, allora, e sembravano due famigliole in vacanza, anche se fuori periodo: era infatti la sera del 20 maggio 1996.
Lo beccarono, un centinaio di uomini della Squadra mobile, dello Sco, dei gruppi speciali della polizia, grazie al famoso escamotage della moto smarmittata: dato che lui, il Verru, ‘il porcò, aveva uno dei rari telefonini Gps (rari per l’epoca), erano riusciti a intercettarlo fra mille difficoltà ma non erano sicuri su dove si trovasse. Il rumore della moto diede la certezza al gruppo guidato, fra gli altri, dall’attuale questore Luigi Savina, all’epoca capo della Squadra mobile di Palermo.
Non opposero resistenza, i due fratelli pluri-assassini e quella stessa sera, nel ritorno a Palermo, ci fu un’altra scena famosa, quella dell’esultanza degli uomini della Mobile. Poco meno di un anno dopo la cattura di un altro pezzo da novanta come Leoluca Bagarella, feroce alleato di Brusca, nel segno dell’impero corleonese di Totò Riina, preso tre anni e mezzo prima, il 15 gennaio 1993.
Dalle tante fiction sulle sue imprese criminali alla realtà, ora Brusca torna libero: ha ammesso di avere premuto il telecomando di Capaci, ha confessato di avere dato ordine di “sbarazzarsi del cagnuleddu”, il ragazzino sequestrato il 23 novembre 1993 e assassinato il 12 gennaio proprio di quell’anno, il 1996. Era Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino. Tra coloro che strinsero la corda al collo del quindicenne, rapito all’età di 13 anni, ci fu anche Enzo Salvatore Brusca. Il fratello del boss di San Giuseppe Jato (Palermo) fu il primo a pentirsi, Giovanni gli andò appresso dopo qualche tempo. Fra veleni e sospetti, il tentativo di “mascariare”, sporcare l’ex presidente di commissione Antimafia e Camera, Luciano Violante, come presunto ispiratore della collaborazione.
Non convinse in pieno, all’inizio ne’ mai, Brusca: dalla specie di trattativa con l’allora capo della Direzione nazionale antimafia Piero Luigi Vigna al rimpallo di racconti ambigui condivisi con il suo ex avvocato, Vito Ganci, che mise le mani avanti e si presentò per mettere in guardia dai possibili inquinamenti del boss, “pentito 24 carati”, definizione ironica in una scritta sui muri di San Giuseppe Jato, nei giorni di agosto del 1996 in cui Brusca aveva cominciato a parlare.
Brusca ha testimoniato dappertutto, poi, dal processo Andreotti a Dell’Utri, da Mannino alla Trattativa Stato-mafia. Pesa su di lui quella condanna a 30 anni, mai ridotta, per il sequestro e l’omicidio del piccolo Di Matteo. Pm di quel processo era stato uno dei magistrati che a Palermo avevano coordinato le indagini dirette alla sua cattura, Alfonso Sabella, uno di coloro che poi raccolsero le sue confessioni.
Deposero al processo Andreotti, i fratelli Brusca, accusarono il sette volte presidente del Consiglio di collusioni con i boss, ma negarono di conoscere la storia del bacio con Totò Riina, vicenda raccontata dal suo acerrimo nemico, Balduccio Di Maggio, che Brusca avrebbe voluto uccidere e che a sua volta tornò in armi a San Giuseppe Jato per sterminare gli uomini del Verru.
In tempi reltivamente recenti la Dda di Palermo gli sequestrò 200 mila euro, poi restituiti, ritenendo che avesse dei beni nascosti e mai rivelati, ha deposto nella Trattativa Stato-mafia, parlando del “papello” di Totò Riina, indicando come “terminale” delle richieste che il superboss avrebbe cercato di imporre allo Stato l’ex ministro dell’Interno ed ex presidente del Senato, Nicola Mancino. Unico imputato assolto nel processo sulla Trattativa, mai accusato tra l’altro di mafia o di concorso esterno ma solo di falsa testimonianza.