AGI – Tre sacerdoti infedeli, un’etnia che non ama gli stranieri e la guerra civile finita ma non conclusa in quello che forse è il paese più povero del mondo. In questa polveriera si muoveva e si muoverà Christan Carlassare, una volta uscito dall’ospedale, quando prenderà possesso della diocesi di Rumbek, in Sud Sudan. Avrà bisogno di aiuto.
La cerimonia d’insediamento era prevista tra qualche settimana, ora sarà il decorso postoperatorio a determinare i tempi. Lui perdona, invita a mantenere intatti gli slanci e gli affetti, a non cedere alla preoccupazione. Ma il contesto in cui è maturato l’attacco che lo ha visto gambizzare l’altra notte di preoccupazioni non può che alimentarne, fatto com’è di rivalità tribali, lotte personali, fragili tregue e colpi di mitra.
Nella sterminata diocesi di Rumbek, che da sola è grande come la Svizzera e ospita un milione di abitanti tra i più indigenti d’Africa, solo negli ultimi giorni sono state uccise una ventina di persone. Ufficialmente sono storie di abigeato o piccola criminalità, ma nessuno ignora che tra il furto del bestiame e lo scontro tribale o sociale c’è poca differenza. Scolarità di fatto sotto il 20 percento, soglia di povertà per il 50 percento, sviluppo economico conseguente a tanta arretratezza. Soprattutto, l’instabilità politica.
Il Sud Sudan è, tra i suoi record, anche il paese più giovane del mondo. È arrivato all’indipendenza solo dieci anni fa esatti. Prima era inserito nel Sudan, ed era vittima di vere e proprie pulizie etniche e religiose. Musulmani a Kartum, animisti e cristiani Giuba, con l’aggravante del petrolio e del teak. Ottimi motivi, anche questi ultimi, per alimentare il conflitto.
Dopo l’indipendenza, sancita con un referendum tra la soddisfazione della comunità internazionale, la rottura tra il presidente Salva Kiir e il suo ormai ex vice, Riek Machar. Uniti prima nel Movimento per la Liberazione del Popolo Sudanese, divisi poi lungo le linee delle appartenenze etniche: dinka il primo, nuer il secondo. Da allora hanno combattuto e trattato, alternando i mezzi della diplomazia a quelli della guerra, che poi è diplomazia – verrebbe da dire – combattuta con altri mezzi più brutali. E di brutalità si è spesso parlato, nelle rare corrispondenze che hanno raggiunto negli anni i media occidentali. Dodici sono state, per lo meno, le intese raggiunte e disattese nel corso di questo decennio.
Nel frattempo due milioni e mezzo di uomini e di donne sono fuggiti nei campi profughi messi su nei paesi vicini (uno, quello di Teirkidi, venne visitato nel 2016 da Sergio Mattarella). Oltre sei milioni di persone sono sfamate dal World Food Program. Il governo, invece, viene tacciato di vera e propria cleptocrazia.
Il Papa resta a Roma
Negli ultimi anni i tentativi di mediazione sono stati numerosi. La Comunità di Sant’Egidio, nel gennaio 2020, riuscì a far firmare alle parti in conflitto la Dichiarazione di Roma, sottoscritta dai due contendenti e da una serie di gruppi minori, per la formazione di un governo di unità nazionale. A questo punto anche Papa Francesco annunciò come prossimo un suo viaggio nel paese africano, insieme – in Sud Sudan sono non pochi i protestanti – all’Arcivescovo di Canterbury Justin Welby e dal coordinatore della Chiesa Presbiteriana di Scozia Martin Fair.
Dopo nemmeno un anno la situazione era tornata in alto mare. Lo scorso Natale Papa, Arcivescovo e Coordinatore hanno dovuto lanciare un appello congiunto “Siamo stati contenti di vedere i piccoli progressi che avete fatto, ma sappiamo che non basta perché il vostro popolo senta pienamente gli effetti della pace”. Un modo molto educato per dire: troppo poco e molto tardi.
Ecco il contesto in cui è arrivata, pochi mesi dopo, la designazione a vescovo di Rumbek di Christian Carlassare. La sede era vacante dai tempi dell’indipendenza. Il suo predecessore, Cesare Mazzolari, anche lui padre comboniano, morì a pochi giorni dalla proclamazione nel 2011. Carlassare è stato chiamato a sostituirlo da Bergoglio l’8 marzo scorso. Il 15 si è presentato nella sua nuova sede; avrebbe dovuto prenderne possesso il 23 maggio. L’altra notte l’attacco, poi gli arresti. Tre preti tra gli arrestati, tutti della diocesi di Rumbek. Come mai?
Succede che tra la morte di don Mazzolari e l’arrivo di Carlassarre, inevitabilmente, la diocesi si è autogovernata, e che il clero locale sia – come il resto della popolazione – quasi tutto dinka. Uno straniero – un italiano mandato da Roma – a questo punto non era più gradito. Lo stesso Kiir, a scanso di equivoci, aveva fatto filtrare nei mesi scorsi la sua personale e fortissima inclinazione a veder nominato a capo della diocesi un sacerdote locale. Cioè dinka.
Ma non occorre essere fini analisti per rendersi conto che mettere, da parte della Chiesa, in quella casella un religioso locale avrebbe rappresentato uno schierarsi, un prendere posizione. E questo avrebbe complicato il ruolo super partes che non solo la Chiesa cattolica, ma anche le altre chiese (la Protestante e l’Anglicana) intendono mantenere per il bene del processo di pace.
L’incertezza del futuro
Di qui scaturisce quello che lo stesso Carlassare ha definito un avvertimento. Fatto grave, gravissimo, ma che è tanto più grave se si considera il coinvolgimento dei tre religiosi, che hanno sentito evidentemente l’appartenenza etnica come superiore a quella alla Chiesa. E non rassicura più di tanto che Kiir sottolineai in un comunicato che un vescovo è avulso dalle beghe locali: sembra più che una presa di distanze un tentativo di schivare le accuse.
Non a caso Nigrizia, la testata dei Comboniani, adesso ricorda che anche l’arcivescovo di Giuba ha dovuto difendersi da vere e proprie calunnie. E parla, Nigrizia, di un vero e proprio “volto feroce della Chiesa”. Bisognerà, aggiunge, tenerne conto in futuro perché Padre Carlassare “avrà bisogno di tutte le nostre preghiere, ma anche di un forte ombrello ‘politico’ che lo salvaguardi da altri problemi che potrebbero mettere a rischio la sua sicurezza personale e anche la sua azione”.
Il ragionamento non potrebbe essere più chiaro.