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Contro Il giubilo per gli arresti in Francia

Apr 28, 2021

Non partecipo al clima di giubilo per gli arresti in Francia. Negli anni del terrorismo, che erano i miei vent’anni passati a Torino, ero un controterrorista (così mi definiva mio padre con molta inquietudine), ero collaboratore di questurini e carabinieri e magistrati, organizzatore di delazioni di massa, di scioperi, di documenti e ricerche per dire la verità su un fenomeno, la violenza in fabbrica e fuori, che inquinava severamente la storia del movimento operaio e minacciava la democrazia e lo stato, con i quali noi comunisti togliattiani e amendoliani ci identificavamo senza riserve, fino a assumerci rischi seri, girare armati con l’autorizzazione del ministero dell’Interno, cambiare abitazione e guardarci le spalle. Avevo una smania di giustizia efferata, emozionato dal delitto e dalla sorte delle vittime; sapevo che era lotta armata, non omicidi seriali, sapevo che i caduti erano simboli politici, non-persone trattate con odio giacobino da marxisti imbizzarriti e stolti; la mia furia di ritorsione e repressione era identica con l’idea di stroncare un movimento o partito armato che mirava al cuore dello stato nel quale il Pci era insediato nel segno dell’antifascismo e della costituzione repubblicana e di un’alleanza riformatrice tra le grandi forze popolari (retrospettivamente, un generoso inganno ideologico).

 

Ho partecipato a un numero impressionante di funerali, di comizi, di avventurose imprese politiche fluttuanti fra morti e feriti per mano terrorista, questurini, giornalisti, capi di fabbrica, passanti, amministratori, politici, fino ai casi di un operaio di Genova Guido Rossa, che aveva denunciato un terrorista, e di Aldo Moro, il capo della Dc e della maggioranza di unità nazionale processato e giustiziato senza pietà. Ruppi le relazioni con un mondo che mi sembrava fatuo, composto di facili giustificatori e giustificazionismi. Decrittare i comunicati delle bierre era il mio mestiere, spiegare che molti movimenti estremisti erano contigui all’area o partito armato era la mia missione intellettuale in una città, Torino, dove lo pseudo-dogma dei “compagni che sbagliano” era spesso di rigore, in particolare nella cultura cosiddetta azionista oggi imprudentemente celebrata come integra e pura.

 

Non ritrovo nulla di quella smania di giustizia, bene o male indirizzata, ma decisiva per la sconfitta del terrorismo italiano, nell’ansia di vendetta che nell’Italia di oggi, quando non costa più nulla e rende troppo solidarizzare con il dolore delle vittime e dei loro parenti, raggiunge anche delitti di cinquant’anni fa e persone che c’entrano ormai nulla con quello che furono. Tutto viene deciso da un’interpretazione abbastanza miserabile della politica. Mitterrand custodiva a suo modo un fuoco machiavellico incomprensibile a noi di qui e perseguiva l’obiettivo di una soluzione politica forte a un problema storico, quello di una parte di una generazione che aveva ceduto al fantasma doloroso (per gli altri e per loro stessi) della lotta armata. Noi qui, adesso, dopo il tradimento macroniano di quella “dottrina”, paghiamo con un fuocherello demagogico da quattro soldi, e con l’illusione della giustizia distributiva, la nostra incapacità di elaborare un luttuoso periodo della nostra storia, fatto anche ma non soltanto di dolori privati, un’epoca in cui si doveva saper scegliere da che parte stare. E all’avanguardia della demagogia si trovano quelli che forse in quegli anni avrebbero speso poco, pochissimo, in difesa dello stato e della democrazia, di quelle energie repubblicane che non posseggono se non nella chiacchiera. Quindi la legge è legge, certe pene sono imprescrittibili, ma il giubilo oggi è per me un sentimento avvilente e sa di sconfitta.

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