• 27 Novembre 2024 7:47

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Paolo Maldini, numero 1(041)

Mar 26, 2021

Ci sono numeri che pur non essendo primi possono soffrire la solitudine. Nel senso che, nonostante siano divisibili, sono numero unici perché significano una cosa soltanto. Prendete 1041. È divisibile per 3, ma non frega nulla a nessuno, anche se non poteva essere altrimenti visto il numero che ha sempre portato sulla sua maglia Paolo Maldini. È un numero unico perché è il titolo di un libro. E soprattutto è unico se lo legate a un nome e cognome: 1041 Paolo Maldini. Come il numero delle sue partite ufficiali. Lo confesso subito: c’ero alla prima a Udine il 20 gennaio 1985 e all’ultima a San Siro il 24 maggio 2009 (l’ultima in assoluto la giocò il 31 maggio a Firenze). In mezzo Paolo Maldini ci ha costruito una carriera mitica che oggi meriterebbe di diventare un film, una fiction, una serie tv anche se lui non ha mai sperato “de morì prima” e che per ora è comunque un libro scritto con amore (non cieco però) da Diego Guido (che non sono due nomi, ma un nome e un cognome). Col Milan ha conquistato la sua prima Coppa dei Campioni a vent’anni e l’ultima Champions un mese prima di compierne trentanove. L’uomo rimasto bandiera è di moda in un mondo di banderuole. E Paolo è rimasto bandiera anche dopo, quando ha ritrovato la strada di casa ed ha cominciato a lavorare da dirigente.

Ci ha messo un po’ a trovare l’occasione giusta, ha detto anche dei no che non erano così facili da pronunciare, ma poi quando si è seduto dietro a una scrivania ha dimostrato di avere fiuto per capire i giocatori di talento e il passato giusto per convincerli ad accettare nuove sfide. Non ha studiato, ma sta imparando giorno dopo giorno. 

 
Paolo Maldini non è stato un giocatore normale. Tutti i giocatori normali hanno un piede forte: Maldini non aveva un piede forte perché nessuno dei due era quello debole. Lo hanno raccontato anche a Coverciano, al corso allenatori spiegando i fondamentali del gioco: “Su un lancio lungo avversario, il terzino che difende deve correre verso la propria porta tenendo avversario e pallone tra sé e il fallo laterale. E per minimizzare i rischi, deve compiere l’intervento voltandosi verso l’esterno del campo… A meno che tu non sia Maldini”. Perché Paolino poteva fare l’impossibile. Ha riscritto le regole del gioco. Con eleganza, velocità (“ultrasonica” la definiva Arrigo Sacchi) e quel pizzico di cattiveria che non può mancare mai in un difensore. Il tutto condito con una classe infinita che neppure il mitico Cesarone aveva. “Gli anni di Sacchi furono un meteorite lanciato sopra lo sport italiano e sopra la visione che gli italiani avevano del calcio, uno spettacolo che conoscevano da sempre eppure che il Milan stava rendendo profondamente diverso davanti ai loro occhi – scrive Diego Guida – Maldini era sopra a quel meteorite. Ci restava incollato con entrambi i piedi come fosse in equilibrio su una velocissima tavola da surf, portando con sé il suo straordinario potenziale, pronto a farlo esplodere nel momento stesso dell’impatto a terra”.  Distruggeva in scivolata i sogni dei migliori giocatori del mondo. E poi ripartiva a costruire quelli dei suoi compagni. Nel libro si racconta di come un giorno, chiacchierando con Boban e Massara, Paolino si sia definito “il giocatore più perdente della storia”. Sì avete lette bene: “Ho perso tre finali di Champions League. Tre finali di Intercontinentale. Due finali di Coppa Italia. Tre di Supercoppa Italiana…Aspetta, e con l’Italia? Con l’Italia, ho perso una finale dei Mondiali, una finale degli Europei e una semifinale in casa nel ‘90”. Credo che chiunque vorrebbe aver perso quanto lui. Anche se al contrario suo non avesse vinto 7 scudetti, 5 coppe dei campioni, 5 supercoppe italiane, 1 coppa Italia, 5 supercoppe Uefa, 2 coppe Intercontinentali e una coppa del mondo per club. Un vero perdente di successo.

Il libro di Diego Guido, un’altra perla nella collana delle “Vite inattese” di 66thand2nd, non raccolta soltanto la luce di una vita meravigliosa. Ci sono anche le ombre, il rapporto difficile con gli ultrà, quel vergognoso saluto d’addio che gli confezionarono nell’ultimo giorno in cui una maglia rossonera ha portato il numero 3, quello complicato con la dirigenza nel dopo carriera. Ma Paolino va raccontato così, come fa Diego Guido: “Se accadranno cose che non condivide non si farà problemi a scavalcare il perimetro delle competenze di calciatore, e poi di dirigente, per dire cosa pensa. Talvolta sollevando antipatie, talvolta scendendo in arene che avrebbe invece potuto guardare dall’alto al basso con serena superiorità. Di certo, senza mai lavarsene le mani, indifferente, al contrario di Ponzio Pilato ai tempi di Gesù”.

 

Paolo Maldini è stato un giocatore enorme, ma è un uomo complicato. Un uomo riservato, geloso della sua privacy, permaloso al punto giusto. Molto orgoglioso. “E’ umano, imperfetto, con luci e ombre; di sicuro, più interessante del cavaliere senza macchia a cui lo associamo sempre di più”, racconta l’autore del libro scritto intervistando tanti compagni, allenatori e pure il diretto interessato che non è stato semplice convincere. Paolo ci ha messo un po’ a non essere più il figlio di Cesare. Adesso tocca a Daniel provare a non essere più il figlio di Paolo. Se ti chiami Maldini devi fare i conti anche con questo. L’importante è che alla fine il giudizio arrivi soltanto per quello che hai fatto in campo. Non contenga pregiudizi. Non sia frutto di un’eredità. Maldini è stato un giocatore (ed è un uomo) controcorrente. Ben prima che Ibra andasse a Sanremo lui aveva condotto una trasmissione radiofonica con Ringo. Ha sempre giocato d’anticipo. E l’fatto per sé, per i suoi compagni, per la sua squadra. Mai per prendersi soltanto un applauso in più.

Ci sono numeri che pur non essendo primi possono soffrire la solitudine. Nel senso che, nonostante siano divisibili, sono numero unici perché significano una cosa soltanto. Prendete 1041. È divisibile per 3, ma non frega nulla a nessuno, anche se non poteva essere altrimenti visto il numero che ha sempre portato sulla sua maglia Paolo Maldini. È un numero unico perché è il titolo di un libro. E soprattutto è unico se lo legate a un nome e cognome: 1041 Paolo Maldini. Come il numero delle sue partite ufficiali. Lo confesso subito: c’ero alla prima a Udine il 20 gennaio 1985 e all’ultima a San Siro il 24 maggio 2009 (l’ultima in assoluto la giocò il 31 maggio a Firenze). In mezzo Paolo Maldini ci ha costruito una carriera mitica che oggi meriterebbe di diventare un film, una fiction, una serie tv anche se lui non ha mai sperato “de morì prima” e che per ora è comunque un libro scritto con amore (non cieco però) da Diego Guido (che non sono due nomi, ma un nome e un cognome). Col Milan ha conquistato la sua prima Coppa dei Campioni a vent’anni e l’ultima Champions un mese prima di compierne trentanove. L’uomo rimasto bandiera è di moda in un mondo di banderuole. E Paolo è rimasto bandiera anche dopo, quando ha ritrovato la strada di casa ed ha cominciato a lavorare da dirigente.
Ci ha messo un po’ a trovare l’occasione giusta, ha detto anche dei no che non erano così facili da pronunciare, ma poi quando si è seduto dietro a una scrivania ha dimostrato di avere fiuto per capire i giocatori di talento e il passato giusto per convincerli ad accettare nuove sfide. Non ha studiato, ma sta imparando giorno dopo giorno. 
  Paolo Maldini non è stato un giocatore normale. Tutti i giocatori normali hanno un piede forte: Maldini non aveva un piede forte perché nessuno dei due era quello debole. Lo hanno raccontato anche a Coverciano, al corso allenatori spiegando i fondamentali del gioco: “Su un lancio lungo avversario, il terzino che difende deve correre verso la propria porta tenendo avversario e pallone tra sé e il fallo laterale. E per minimizzare i rischi, deve compiere l’intervento voltandosi verso l’esterno del campo… A meno che tu non sia Maldini”. Perché Paolino poteva fare l’impossibile. Ha riscritto le regole del gioco. Con eleganza, velocità (“ultrasonica” la definiva Arrigo Sacchi) e quel pizzico di cattiveria che non può mancare mai in un difensore. Il tutto condito con una classe infinita che neppure il mitico Cesarone aveva. “Gli anni di Sacchi furono un meteorite lanciato sopra lo sport italiano e sopra la visione che gli italiani avevano del calcio, uno spettacolo che conoscevano da sempre eppure che il Milan stava rendendo profondamente diverso davanti ai loro occhi – scrive Diego Guida – Maldini era sopra a quel meteorite. Ci restava incollato con entrambi i piedi come fosse in equilibrio su una velocissima tavola da surf, portando con sé il suo straordinario potenziale, pronto a farlo esplodere nel momento stesso dell’impatto a terra”.  Distruggeva in scivolata i sogni dei migliori giocatori del mondo. E poi ripartiva a costruire quelli dei suoi compagni. Nel libro si racconta di come un giorno, chiacchierando con Boban e Massara, Paolino si sia definito “il giocatore più perdente della storia”. Sì avete lette bene: “Ho perso tre finali di Champions League. Tre finali di Intercontinentale. Due finali di Coppa Italia. Tre di Supercoppa Italiana…Aspetta, e con l’Italia? Con l’Italia, ho perso una finale dei Mondiali, una finale degli Europei e una semifinale in casa nel ‘90”. Credo che chiunque vorrebbe aver perso quanto lui. Anche se al contrario suo non avesse vinto 7 scudetti, 5 coppe dei campioni, 5 supercoppe italiane, 1 coppa Italia, 5 supercoppe Uefa, 2 coppe Intercontinentali e una coppa del mondo per club. Un vero perdente di successo.
Il libro di Diego Guido, un’altra perla nella collana delle “Vite inattese” di 66thand2nd, non raccolta soltanto la luce di una vita meravigliosa. Ci sono anche le ombre, il rapporto difficile con gli ultrà, quel vergognoso saluto d’addio che gli confezionarono nell’ultimo giorno in cui una maglia rossonera ha portato il numero 3, quello complicato con la dirigenza nel dopo carriera. Ma Paolino va raccontato così, come fa Diego Guido: “Se accadranno cose che non condivide non si farà problemi a scavalcare il perimetro delle competenze di calciatore, e poi di dirigente, per dire cosa pensa. Talvolta sollevando antipatie, talvolta scendendo in arene che avrebbe invece potuto guardare dall’alto al basso con serena superiorità. Di certo, senza mai lavarsene le mani, indifferente, al contrario di Ponzio Pilato ai tempi di Gesù”.
 
Paolo Maldini è stato un giocatore enorme, ma è un uomo complicato. Un uomo riservato, geloso della sua privacy, permaloso al punto giusto. Molto orgoglioso. “E’ umano, imperfetto, con luci e ombre; di sicuro, più interessante del cavaliere senza macchia a cui lo associamo sempre di più”, racconta l’autore del libro scritto intervistando tanti compagni, allenatori e pure il diretto interessato che non è stato semplice convincere. Paolo ci ha messo un po’ a non essere più il figlio di Cesare. Adesso tocca a Daniel provare a non essere più il figlio di Paolo. Se ti chiami Maldini devi fare i conti anche con questo. L’importante è che alla fine il giudizio arrivi soltanto per quello che hai fatto in campo. Non contenga pregiudizi. Non sia frutto di un’eredità. Maldini è stato un giocatore (ed è un uomo) controcorrente. Ben prima che Ibra andasse a Sanremo lui aveva condotto una trasmissione radiofonica con Ringo. Ha sempre giocato d’anticipo. E l’fatto per sé, per i suoi compagni, per la sua squadra. Mai per prendersi soltanto un applauso in più.

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