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Prandelli, il fine del gioco

Mar 24, 2021

Il calcio è un bel gioco perché non ha logica, nemmeno apparente, è l’unico sport che contempla il ribaltamento di fronte. Soltanto emozioni, e non vince sempre il migliore: se volete vedere vincere i più bravi datevi al golf. Solo ieri mattina contemplavamo stupiti le lacrime di Ibra, trasformatosi nel tempo di un contropiede da dio presuntuoso e autoproclamato in intenerito padre di famiglia. E al pomeriggio, senza preavviso come una carambola nell’area piccola, un uomo famoso per equilibrio e saggezza (pure troppa, gli rinfacciavano anche) lascia la sua squadra e il mondo del calcio (“sono consapevole che la mia carriera di allenatore possa finire qui”) scrivendo una lettera alla sua Fiorentina e ai suoi tifosi persino struggente, come è raro trovarne nello sport, ma senza lacrime da distribuire alla curva. Lucida.

 

Il calcio è un bel gioco perché non ha logica, alla fine è sempre una questione di uomini e il risultato non è mai la somma algebrica di meriti e demeriti (figurarsi se contano davvero i nomi e i soldi). E’ una somma di stati d’animo e caso: un risultato sempre sbagliato, eppure qualche volta giusto. Un po’ come la vita. “E’ la seconda volta che lascio la Fiorentina. La prima per volere di altri, oggi per una mia decisione”, ha scritto Cesare Prandelli, che era tornato a Firenze come allenatore solo nel novembre scorso (subentro in corsa, come si dice) dopo dieci anni. “Nella vita di ciascuno, oltre che alle cose belle, si accumulano scorie, veleni che talvolta ti presentano il conto tutto assieme. In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio”, ha scritto. Un disagio intimo, che forse allude a una depressione (“in questi mesi è cresciuta dentro di me un’ombra”). E la decisione di chiamarsi fuori da un calcio che non è più il suo (“sicuramente sarò cambiato io e il mondo va più veloce di quanto pensassi”), da uno stress che non sa più reggere. Del resto l’allenatore di calcio è il lavoro più logorante d’Italia, escluso il segretario del Pd.
Non è capitato solo a lui, ed è un segno della verità del calcio. Arrigo Sacchi, dopo un primo addio, aveva voluto riprovarci: ma durò solo ventidue giorni sulla panchina del Parma, “mi mancava l’aria”, confessò dopo essersi sentito male in panchina. Aldo Agroppi un giorno scappò da Padova, di notte, per rintanarsi nella sua Piombino, per scacciare le sue ombre. Van Basten faceva da poco l’allenatore quando scoprì che lo stress gli stava causando seri problemi di cuore, e la chiuse lì.

Prandelli è un uomo buono, onesto con la vita come bisogna esserlo con il gioco. Ha vinto tanto da calciatore, ha fatto bene da allenatore. Soprattutto a Firenze, la sua città adottiva e forse ormai troppo passionale, per un bresciano di Orzinuovi. Da Ct della Nazionale fece bene, poi quando invece andò male, in Brasile nel 2014, si dimise con dignità pacata, tenendo per sé quel tipo di amarezze che non si scaricano sugli altri, che non si raccontano in giro. Ci si dimette anche per cose più serie di una partita di calcio. Lo fece già una volta: era arrivato alla Roma nel 2004, ma prima ancora che iniziasse il campionato lasciò, sua moglie Manuela aveva una malattia grave, doveva stare con lei. Non lo avrebbero fatto in tanti, all’inizio di una nuova carriera. Ma il calcio è un bel gioco perché, come la vita, è un po’ più largo di un campo e di una panchina.

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