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I referendum azzoppano il Jobs Act

Dic 17, 2016

MILANO – Un Jobs Act depotenziato e a rischio. La sconfitta dell’ex premier Matteo Renzi nel referendum costituzionale lascia aperti alcuni nervi scoperti della riforma del lavoro e dà fiato all’onda referendaria che la Cgil sta cavalcando per abolire alcune parti del testo varato a marzo dello scorso anno. Sul primo fronte, la mancata riforma costituzionale impedisce di fatto l’avviamento di quella che doveva essere la seconda gamba del Jobs Act, ovvero la nuova struttura del collocamento. Il “No” lascia la riforma del collocamento pubblico come materia concorrente fra Stato e Regioni e non di esclusiva competenza statale (come sarebbe stato se avesse vinto il “Sì”). In particolare, il nuovo assegno per aiutare i disoccupati a ricollocarsi verrà declinato a piacere da ogni giunta. E lo Stato avrà un potere di intervento limitato sulle realtà locali. Resta in vigore l’attuale “federalismo” al sostegno della disoccupazione. Si è trattata di un’occasione persa secondo quanto dichiarato in una intervista a Repubblica dal presidente dell’Anpal, il giuslavorista Maurizio Del Conte: “La mia Agenzia non potrà intervenire sul territorio, saranno le Regioni a gestire il personale dei centri per l’impiego”.

La riforma della Costituzione doveva consegnare all’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro le chiavi per gestire il nuovo sistema centralizzato del collocamento, invece, tutto è rimasto immutato con le Regioni e lo Stato a gestire concorrenzialmente la materia, un modello che funziona male e crea enormi squilibri tra i territori. E a dirlo sono i numeri: solo il 3% degli occupati passa dagli uffici di collocamento pubblici. “La vittoria del No ha generato una serie di problemi – riconosce Del Conte – primi fra tutti il destino del personale dei centri per l’impiego e i poteri operativi della mia agenzia”. L’Anpal non assorbirà tutti gli attuali enti operanti sul territorio, ma avrà una funzione di coordinamento e dovrà garantire l’applicazione degli standard minimi. Resta, invece, invariato tutto quanto è stato realizzato con il decreto 150, la parte del Jobs Act dedicata alle politiche attive, dallo statuto dell’Anpal all’assegno di ricollocazione. E l’assegno sarà la prima misura nazionale di politica attiva, con le Regioni coinvolte nell’assegnazione. “Sono loro – spiega Del Conte – che ci segnalano quali centri per l’impiego sono pronti, con loro abbiamo definito la piattaforma informativa e le modalità di accreditamento dei soggetti privati che possono formare i disoccupati”.

Ma come uno tsunami, la vittoria del “No” ha messo a rischio altre parti del Jobs Act, perché la sconfitta elettorale di Renzi ha sicuramente incoraggiato chi quelle norme le vuole cambiare a colpi di voto popolare, prima fra tutte la Cgil di Susanna Camusso che per il prossimo anno ha messo in cantiere ben tre referendum: uno per cancellare i voucher, un altro per tornare all’articolo 18 nelle aziende sopra i cinque dipendenti e un altro ancora per garantire che le imprese subappaltatrici paghino i contributi ai loro dipendenti. E se la Consulta dovesse dare il via libera, si dovrebbe votare già nella prossima primavera, tre mesi dopo l’ultimo referendum e prima ancora che si sia andati al voto per la nuova tornata politica. I referendum della Cgil sono legati a doppio filo alla proposta di legge popolare sulla Carta dei diritti su cui la Cgil ha raccolto un milione e 150 mila firme, depositate alla Camera. E’ un testo che mira a un nuovo Statuto dei lavoratori, coerente con la mutazione del mercato del lavoro, ma che tuteli soprattutto i giovani dalle nuove forme di sfruttamento.

L’iter sui referendum è ancora in corso. La Cgil ha depositato in estate le firme per ogni quesito e la settimana scorsa l’Ufficio centrale per il referendum presso la Cassazione ne ha verificata la correttezza e ha valutato che i quesiti rientrano fra le materie che si possono sottoporre a referendum abrogativo. Ora tocca alla Consulta che ha già fissato per l’11 gennaio la data in cui si pronuncerà. E se dovesse decidere che i referendum sono legittimi, il governo dovrebbe fissare la data del voto fra il 15 aprile e il 15 giugno. Si tratterebbe di un nuovo voto popolare chiamato a esprimersi sulle misure del governo Renzi. E anche in questo caso, è probabile che la maggioranza venga nuovamente sconfitta. Per evitare la sentenza delle urne dei referendum, l’idea dei renziani è di anticipare a giugno le elezioni politiche. In questo caso la legge parla chiaro: i quesiti referendari vanno congelati e spostati di un anno perché non si possono tenere insieme elezioni politiche e referendum. Sarebbe la via più semplice per bloccare la contro-riforma del lavoro voluta dalla Cgil. Una soluzione che però deve fare i conti con la riluttanza del presidente della Repubblica a sciogliere le Camere e con i tempi del varo delle nuove leggi elettorali per Camera e Senato.

Di fronte all’incertezza, nelle sale di Palazzo si affaccia una nuova ipotesi: modificare il Jobs act e rivedere le norme sui voucher. Ne ha parlato all’ultima riunione dei gruppi del Pd Cesare Damiano, come conferma il capogruppo del Pd a Montecitorio Ettore Rosato: «Sì, in un intervento è stato citato il tema». Per i voucher ha spiegato Damiano tutto è più facile: basta recuperare la legge Biagi e farli tornare veramente strumenti per pagare collaborazioni occasionali. Più difficile da affrontare il tema dell’articolo 18, mentre il terzo quesito ha natura molto tecnica e poco politica.

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