ROMA – Si è allargata a macchia d’olio. Ha finito col mettere in ginocchio intere famiglie. Ha snervato e fiaccato i giovani. Ed è più che raddoppiata nell’arco degli ultimi dieci anni. Un balzo drammatico, da capogiro: più 141 per cento. Il suo nome è povertà. Una realtà messa in luce – con tutta l’evidenza possibile – dagli esiti del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso.
INFOGRAFICA Welfare e disuguaglianze sociali in Italia
Oggi, infatti, 4,6 milioni di persone vivono nell’indigenza assoluta: quasi l’8% della popolazione residente in Italia. Basti pensare che erano poco meno di 2 milioni nel 2005 (il 3,3% del totale). Un incremento che non ha risparmiato nessun’area della penisola: al nord il numero dei bisognosi è addirittura triplicato. Qualche numero? Sempre nel 2005 i poveri erano 588mila al nord e poco più di un milione al sud mentre adesso sono rispettivamente 1,8 e 2 milioni circa. Persone che non possono permettersi spese essenziali come quelle per gli alimenti, la casa, i vestiti, i mezzi per spostarsi né le medicine.
(naviga nei grafici interattivi per visualizzare i dati – fonti: Istat ed Eurostat)
Quando il lavoro non basta. Secondo i dati elaborati da Openpolis (in collaborazione con ActionAid) per Repubblica.it, la probabilità di essere poveri è cresciuta soprattutto tra chi si trova ai margini del mercato del lavoro, come i giovani e coloro che sono in cerca di occupazione. Ma il dato che emerge con prepotenza è che spesso il lavoro – per come si è configurato dopo la crisi – a volte non basta a mettere al riparo da ristrettezze e immiserimenti. Tra le famiglie operaie, ad esempio, il tasso di povertà è salito dal 3,9 all’11,7 per cento. E, con la crisi, il rischio di finire in miseria è aumentato per i lavoratori in 7 Stati Ue su 10. L’Italia è il quarto Paese in cui è cresciuto di più: nel 2005 erano a rischio povertà 8,7 lavoratori su 100, nel 2015 sono diventati 11. Fanno peggio di noi Germania, Estonia e Bulgaria. Tra i lavoratori tedeschi il medesimo rischio è aumentato di oltre 5 punti percentuali. Migliora la situazione in diversi Paesi dell’est Europa, tra cui Polonia, Slovacchia e Ungheria.
In parallelo all’aumento dei poveri, cresce anche il numero di persone che lavorano poche ore a settimana.
Accanto, poi, a tendenze consolidate a livello europeo, si registrano alcune particolarità tutte italiane. Tipo: il più alto tasso di giovani che non studiano e non lavorano (Neet) e una delle più basse percentuali di donne che continuano a lavorare dopo la maternità. Una combinazione che ha impoverito in particolare le famiglie giovani e numerose. Senza risparmiare, purtroppo, i più piccoli: sono quasi raddoppiati i bambini sotto i 6 anni che vivono in una condizione di grave privazione materiale. Per dire: in punti percentuali, solo la Grecia ha registrato un incremento maggiore rispetto all’Italia .
Di certo c’è che dopo oltre 8 anni di crisi economica, la povertà non può più essere considerata un fatto straordinario che riguarda pochi sfortunati. Ha numeri da fenomeno di massa, e il nostro welfare – concepito in un altro momento storico – sembra poco efficace per contrastarla. “Poche risorse vengono destinate alle famiglie in difficoltà, ai senza lavoro e in generale alle situazioni di disagio – sottolinea Openpolis -. Le misure contro l’esclusione sociale sono diverse e frammentate, a volte temporanee, prive di un disegno organico che le tenga insieme”. Un progetto di legge già approvato alla Camera a luglio – e dunque ben prima della crisi di governo – vuole razionalizzare questi interventi e ricondurli verso una misura universale che, a regime, dovrebbe valere 1,5 miliardi di euro per oltre un milione di persone. Un passo in avanti rispetto agli anni scorsi, ma che esclude ancora oltre 3 milioni di cittadini.
Quanto lavorano gli occupati. Gli oltre 22 milioni di occupati italiani non sono tutti lavoratori a tempo pieno. Per l’Istat è sufficiente un’ora di lavoro a settimana per essere considerati occupati. In diversi casi una situazione lavorativa precaria o part-time può essere il fattore scatenante di una condizione di povertà. Rispetto al decennio scorso, aumentano coloro che lavorano poche o pochissime ore a settimana: il numero di chi è occupato meno di dieci ore è cresciuto del 9% dal 2005, e salgono addirittura del 28% quelli che lavorano tra le 11 e le 25 ore. I lavoratori pagati con i voucher erano meno di 25mila del 2008, sono saliti a quasi 1,4 milioni nel 2015.
I Neet e il rischio povertà. I Neet sono i giovani che non studiano, non lavorano e non sono in formazione. A livello europeo gli Stati dove è più alta la percentuale di Neet sono anche quelli dove è più alto il tasso di povertà giovanile. In Italia nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni i Neet sono il 15% e i giovani a rischio povertà il 32,2 per cento. In Austria meno del 5% dei giovani sono inattivi e il rischio povertà si ferma al 15,2 per cento. In Bulgaria al 16,5% di Neet corrisponde un rischio povertà pari al 46,1 per cento.
La difficoltà economica nelle famiglie giovani. Nel 2015 le famiglie più giovani sono anche quelle più povere. Non può permettersi uno standard di vita dignitoso una famiglia su dieci tra quelle con capofamiglia sotto i 34 anni. Si trova in povertà assoluta circa l’8% delle famiglie all’interno delle quali la persona di riferimento ha tra i 35 e i 54 anni, mentre in quelle dove supera i 65 anni la percentuale si riduce al 4 per cento. Rispetto al 2005, il tasso di povertà assoluta è aumentato di 3 volte quando il capofamiglia ha meno di 55 anni, è cresciuto di 2,7 volte quando ha tra i 55 e i 64 anni, mentre è diminuito nei casi in cui ha più di 65 anni.
La difficoltà economica nelle famiglie numerose. La scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro e la minore retribuzione rispetto agli uomini si riflettono anche nella povertà familiare, perché questo spesso significa dover contare su un solo stipendio. In effetti la povertà assoluta è cresciuta molto nelle famiglie, in particolare in quelle numerose. Tra quelle con tre o più figli, quasi il 20%, cioè quasi una su cinque, non può permettersi un livello di vita dignitoso (erano il 6,9% nel 2005). La presenza di anziani, di solito pensionati, tende a ridurre il tasso di povertà familiare. Le donne sole incontrano ancora più difficoltà. Si trova in stato di grave privazione materiale il 19,8% delle famiglie rette da una madre single con figli.
L’offerta di asili nido. Se la povertà delle famiglie – che è in crescita – dipende anche dalla difficoltà delle donne di accedere al mercato del lavoro, una delle cause è la mancanza di politiche che lo permettano. A cominciare dalla presenza degli asili nido sul territorio nazionale. Nell’arco di dieci anni è aumentato il numero di bambini potenzialmente coperti da questo servizio. Nel 2012 quasi l’80% dei bambini con meno di due anni viveva in un Comune in cui è presente un asilo nido (erano il 63,6% nel 2003). Ma spesso queste strutture non sono sufficienti. La percentuale di iscritti, pur in crescita, resta bassa: oltre l’88% dei bambini tra 0 e 2 anni non frequenta l’asilo nido.
Il welfare: quanto è capace di ridurre la povertà? Spesa in protezione sociale, l’Italia è quinta su 28 stati dell’Unione europea. Eppure la capacità del nostro Stato sociale di incidere sulla povertà è inferiore a molti altri Paesi. La ragione è che la stragrande maggioranza di questa spesa in Italia è impegnata nelle pensioni di anzianità e reversibilità.

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