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1920, se ne va il virus della Spagnola e arrivano (non per tutti) gli «anni ruggenti»

Dic 8, 2020

(Photo by: Universal History Archive/Universal Images Group via Getty Images)

Un segmento di storia da riscrivere

In Italia la Grande guerra aveva mobilitato quasi sei milioni di uomini ed era costata circa 650mila morti; in questo bilancio sono compresi i 50 mila soldati vittime della pandemia. L’editore Franco Angeli ha in catalogo la seconda edizione, riveduta e ampliata, del volume La Spagnola in Italia di Eugenia Tognotti, docente di Storia della medicina all’università di Sassari. Ecco le cifre ricavate dal suo libro: nel nostro Paese, che contava 35 milioni di abitanti, si ammalarono tra i cinque e i sei milioni di persone (un italiano su sette); le stime delle vittime variano da 350 mila a più mezzo milione. «Per una sciagurata coincidenza – scrive la Tognotti – nel nostro Paese le prime due ondate corrisposero ad altrettanti momenti cruciali della guerra: l’attacco austro-ungarico lungo il Piave di metà giugno (la “battaglia del solstizio”) e l’offensiva italiana di Vittorio Veneto verso la fine di ottobre. Dopo l’armistizio del 4 novembre 1918, purtroppo, le manifestazioni di popolo per la liberazione di Trento e Trieste aiutarono la diffusione del virus». Già allora sui giornali si trovavano non pochi decaloghi igienici, consigli sanitari di illustri clinici e pubblicità di medicine e rimedi contro la “febbre spagnola”. Ma erano messaggi per i lettori dei quotidiani, residenti in città, che cominciavano a godere i comfort della modernità, mentre buona parte delle case dei nostri nonni erano sprovviste di acqua corrente, di luce elettrica, di gabinetti e fognature.

Stranamente la maggior parte dei manuali scolastici (non solo in Italia) dedicano diverse pagine alla Prima guerra mondiale e alla rivoluzione russa, ma spendono poche righe o al massimo un paio di paragrafi per l’influenza Spagnola, come se l’evento riguardasse una moltitudine di vittime private e non una tragedia collettiva epocale, la peggiore dai tempi della peste nera nel Trecento (quella che Boccaccio ha raccontato all’inizio del Decameron). Dopo l’attuale pandemia, che sta cambiando la vita di tutti noi e che ancora non possiamo quantificare nel numero finale dei contagi e delle vittime, forse sarà opportuno riscrivere questo segmento di storia da una nuova e diversa prospettiva.

Numeroso gruppo famigliare contadino o operaio fotografato attorno a quella che probabilmente è la loro prima automobile: tutti sembrano molto felici e contenti. Italia, 1920 circa (Fototeca Gilardi)

I sopravvissuti della pandemia, più sani e robusti

Nei primi anni Venti, citiamo ancora il volume della Spinney, «l’influenza Spagnola era stata domata, lasciandosi alle spalle un’umanità profondamente cambiata. Eliminando anche i malati di tubercolosi, malaria e altre patologie, aveva selezionato una popolazione più sana e robusta, rispetto a chi non ce l’aveva fatta: i sopravvissuti (magari reduci anche della guerra) sposarono altrettante sopravvissute e ci fu un evidente aumento della fertilità». In America l’idealismo dell’età wilsoniana apparteneva al passato e l’entusiasmo per il New Deal di Roosevelt era ancora nel futuro, in mezzo ci fu il crollo di Wall Street nell’ottobre 1929 e la successiva Grande depressione. Tuttavia i Roaring Twenties (i “ruggenti anni Venti”) negli Stati Uniti sono identificati come una fase di espansione industriale, che portò all’introduzione di un’ampia gamma di beni di consumo, dopo avere attuato con successo il passaggio da un’economia di guerra a un’economia di pace.

«La ricchezza era inegualmente ripartita, ma sembrava che ce ne fosse abbastanza per tutti – leggiamo nella Storia degli Stati Uniti di Allan Nevins e Henry S. Commager, pubblicata in Italia da Einaudi – e la gente parlava con soddisfazione della nuova epoca, con un pollo in ogni pentola e due macchine in ogni autorimessa».

Un club di Parigi (Photo by Getty Images)

«Les années folles» nel microcosmo di Parigi

Le nuove tecnologie – dal cinema (che diventa sonoro) alla radio e al grammofono – avvicinano tanta gente alla musica (specialmente a quella jazz) e al ballo, anche per rimuovere dalla mente il brutto ricordo della guerra. Sull’onda dell’euforia che si respira in America, anche gli europei (almeno i benestanti) riscoprono la gioiosa socialità della vita urbana e il simbolo più evidente è Parigi. Nella capitale francese quegli anni diventano les années folles: da varie parti d’Europa e soprattutto dagli Stati Uniti (dove dal gennaio 1920 è entrato in vigore il “proibizionismo”) arrivano personaggi della cultura, dell’arte, della musica e dello spettacolo creando un microcosmo mondano, liberale, frenetico (talvolta anche decadente). Cominciando da Francis Scott Fitzgerald (autore del romanzo Il grande Gatsby, che descrive bene quell’epoca) e da sua moglie Zelda, troviamo Ernest Hemingway, Ezra Pound e James Joyce, Picasso e Matisse, la stilista Coco Chanel, la modella Alice Prin (soprannominata Kiki de Montparnasse), la scrittrice e poetessa americana Gertrude Stein, per citare i nomi più noti. Genio e sregolatezza, amori e rivalità, nuove idee e affari: c’è un po’ di tutto. Non spuntano invece facilmente gli italiani nel “bel mondo” citato poco sopra: a Parigi vive il pittore Amedeo Modigliani, che però muore nel gennaio 1920, a soli 35 anni.

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