Il duplice coraggio di David Fincher e Netflix passa da due sceneggiature: quella usata per Mank, scritta dal padre del regista, il compianto Jack Fincher scomparso nel 2003, e quella ancora oggetto di dibattito che ha dato vita a un film simbolo della storia del cinema: Quarto Potere di Orson Welles. Non ci si può esimere dal parlare di duplice coraggio, perché un film come Mank, se non fosse per la lungimiranza del colosso dello streaming, probabilmente non sarebbe mai uscito al cinema. E Fincher, nel proporre una pellicola in bianco e nero dove lo scritto del padre riverbera nel dolceamaro ricordo della Hollywood che fu, non si è di certo sottratto alla volontà di portare su piccolo schermo un’opera che è chiaramente rivolta ai veri cultori del cinema. Quelli forse un po’ più romantici, poco avvezzi alle insipide proposte moderne e ancora persi nel ricordo delle produzioni vecchia scuola.
Mank, storia di un genio dimenticato
Va detto anche che Mank è soprattutto un film molto ruffiano, che nel suo far parte con orgoglio di quella frangia specifica appartenente al cinema d’antan, e nella sua impeccabile modalità di costruzione, ha sempre un occhio attento ai gusti ormai conclamati dell’Academy, che con ogni probabilità lo porterà in gloria tra i nominati ai prossimi Oscar. I motivi non sono legati solo alla bravura di Fincher nel saper cambiare il suo tipico registro in modo così convincente, né tanto meno alla storia di fondo del film; ma dipendono soprattutto dalla sua stupefacente abilità di sembrare un lavoro di ottant’anni fa, a cavallo tra intelligente autocelebrazione e antico reperto finalmente ritrovato e da conservare gelosamente.
Mank racconta della tribolata storia dietro la genesi di Quarto Potere, pietra miliare della settima arte, con luci e ombre che si sono sempre agitate con bruciate ardore dietro le quinte. Il motivo è legato a due forti personalità che si sono scontrate con vivacità e che, anche per la premiazione all’oscar per la migliore sceneggiatura, dove nessuno dei due si presentò alla cerimonia, si creò una disputa che ancora oggi rimane una questione aperta e da dirimere. La critica si è spesso divisa, tra chi spingeva dalla parte di Orson Wells e chi invece ne minimizzava i meriti, mettendo in risalto in ruolo chiave di Herman J. Mankiewicz.
Mank, come si faceva chiamare, era un alcolizzato che tra i suoi tristi eccessi ha trovato la chiave di volta per offrire al mondo intero una sceneggiatura audace, sperimentale, brillante e assolutamente pioniera nel saper rompere degli schemi ormai consolidati. Schemi che abbracciavano l’appiattimento e che prendevano poco in considerazione il pubblico, forse ormai sin troppo abituato alla linearità del cinema di quegli anni. Mankiewicz riuscì invece a stimolare lo spettatore, lo costrinse a barcamenarsi tra i salti temporali, a trovare il bandolo della matassa, mentre la storia proseguiva a un ritmo convulso e creava rimandi non immediatamente individuabili.
Quarto Potere è ancora lì a dimostrare la sua grandezza dopo quasi un secolo, e Fincher, nel suo schierarsi apertamente con Mankiewicz, crea un gioco di specchi dove persino il suo film ne assume in parte le sembianze. La lettura si rivela senz’altro più semplice, complice soprattutto i titoli in sovrimpressione in apertura di scena che indicano con chiarezza se si sta osservando un flashback o meno, come si farebbe con la lettura (appunto) di una sceneggiatura.
Eppure Fincher sa che Mank è il suo Citizen Kane, e lo dimostra non solo attraverso il modo in cui segue pedissequamente l’input generato da quel capolavoro, ma soprattutto per come tempi, ritmi e soluzioni dialogiche si prestino a citazioni, spunti di grande intelligenza e racconti secondari che s’intersecano con la vita maledetta di Mankiewicz, che scriverà la sceneggiatura di Quarto Potere da degente.
Dissidi d’epoca
Si farebbe tuttavia un grosso errore nel pensare a Mank come a un film esclusivamente dedicato alla figura di Herman J. Mankiewicz, o addirittura a una sorta di biopic piuttosto classico. C’è anche una frase del film a sottolineare una ferma credenza di Fincher, che per bocca del protagonista recita: “Non puoi catturare l’intera vita di un uomo in sole due ore. Tutto ciò che puoi sperare di fare, è lasciarne un’impressione“. Ed è esattamente un modo per rimarcare, ai meno attenti, che Mank è qualcosa di profondamente diverso da un’autobiografia, sebbene ne incorpori parzialmente alcuni elementi. Ma sono elementi che servono a creare un contesto, a inserire la figura di Herman J. Mankiewicz in un quadro più grande, quello dei ruggenti anni ’30.
Erano gli anni di una crisi galoppante dove le major perpetravano la loro satrapia nei confronti di dipendenti costretti a sottostare al giogo delle privazioni economiche, in un rapporto di potere che diventava sempre più pericoloso per le sorti del cinema. Ed erano gli anni in cui l’ombra del nazismo si affacciava, dapprima poco presa in considerazione dai più, ma con Mankiewicz che non mancava di sottolinearne la pericolosità.
Nel film sono diverse le sortite in cui Mank, nella sua grande lettura del presente dell’epoca e delle conseguenze possibili nell’immediato futuro, si pone come contraltare al chiacchiericcio di sottofondo della massa. È chiaramente una voce fuori dal coro, quasi un incompreso, uno che “piace come parla, ma forse non come scrive“, un figlio di un’epoca che si avviava al tramonto; ma soprattutto, una delle ultime stelle in grado di brillare nel firmamento sin troppo affollato di Hollywood, sempre avara di sinceri complimenti e fin troppo sbrigativa a etichettare, catalogare e infine dimenticare.
Mankiewicz, come gran parte degli scrittori, è palesemente anti-establishment, ha posizioni sempre chiare e poco di convenienza, va per la propria strada e reclama con forza i propri meriti e l’importanza delle proprie idee: come la firma sulla sua sceneggiatura di Quarto Potere; come il discorso accorato mentre cammina tra gli astanti a una serata di gala, mentre ubriaco ma mai confuso recita il suo pensiero tra facce che osservano e mai controbattono, prima di essere sbattuto fuori da quel mondo. Il film di Fincher è anche un tagliente affronto alla politica, a come certe dinamiche non siano mai cambiate da allora, a come corsi e ricorsi si ripetano a valanga, a come tutto cambi per restare sempre immobile, mentre gl’imbelletamenti danno l’illusione di un progresso che spazza via il vecchiume senza mai riuscirci davvero.
E poi c’è l’ennesima, formidabile performance di Gary Oldman, con quel sorrisetto sardonico dipinto in volto quando Mank è nel pieno della sua vitalità e freschezza mentale, e quelle espressioni corrucciate e seriose quando lo sceneggiatore cade in preda ai fumi dell’alcool o quando con malcelata rabbia lotta per i suoi diritti.
Al di là della presenza poco sfruttata di un’Amanda Seyfried in grande spolvero, è davvero difficile trovare punti deboli al film di Fincher, a cui anche tecnicamente non mancano tocchi di classi: con le bruciature di sigaretta sulla pellicola e quegli effetti applicati a un film che sembra fioccare fuori da un antico archivio del primo trentennio del ‘900, ma che è in realtà molto più moderno di quanto si possa pensare. Perché quella di Quarto Potere (e di Herman J. Mankiewicz) è senza dubbio una storia che doveva essere raccontata anche da un altro punto di vista, ma non è di certo il primo e ultimo caso di un mondo di finzione che urla ai quattro venti le bellezze delle proprie avanguardie, mentre marcisce dentro e si logora lentamente dall’interno.
Se volete recuperare il film capolavoro di cui Mank racconta i retroscena, potrete recuperare il blu-ray di Quarto Potere a questo link.