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24 fotogrammi al secondo – Intervista a Alessandro Valbonesi

Dic 4, 2020

Quanto conosciamo del panorama cinematografico italiano? Parliamo di quello più “piccolo”, di nicchia, dei nuovi e giovani nomi che si stanno affacciando a questo mondo nel tentativo di dare luce al proprio talento ed esporlo a un pubblico sempre più ampio. Questo è l’intento della nostra nuova rubrica, 24 fotogrammi al secondo, che si propone di andare a scoprire le produzioni italiane meno famose e dare voce ai protagonisti principali di tante storie di regia, e non solo, oltre a interessanti corti, documentari e altre tipologie di produzioni. Chi si nasconde dietro l’obiettivo delle telecamere? Scopriamolo insieme aprendo dunque la nostra rubrica con l’intervista a Alessandro Valbonesi, giovane talento italiano che dall’Emilia-Romagna è stato trapiantato a Milano per studio e lavoro. Abbiamo scoperto come è nata la sua passione e alcune sue produzioni interessanti attraverso le nostre domande.

Foto generiche

Presentati: chi sei, cosa hai fatto finora in campo registico e come sei arrivato a questo punto.

Sono Alessandro Valbonesi, classe 1990. Nato e cresciuto a Forlì, mi sono trasferito a Milano per studiare economia. Appassionato filmmaker dall’età di 12 anni, ho fatto di tutto per ignorare quella presenza costante nella mia vita del concetto di voler vivere per fare film e fare film per vivere.

Tuttavia, dopo una laurea e 5 anni di lavoro come account in aziende mediatiche e sportive, ho buttato il cuore oltre l’ostacolo e ho deciso di assecondare la mia passione, iniziando a lavorare a tempo pieno come regista e editor in una casa di produzione televisiva milanese. Mentre coltivavo questa passione, nel tempo libero ho realizzato diversi cortometraggi, videoclip e documentari, anche su commissione. Da quando faccio questo mestiere come professionista ho curato la regia di alcuni spot pubblicitari, una webseries e un programma televisivo a tema food.

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Come ti sei accorto di avere questa passione? Hai tratto ispirazione da qualche modelloparticolare, hai avuto una improvvisa “fulminazione” o semplicemente dono innato?

Mi ricordo molto bene il casus belli che ha scatenato in me questa ambizione. Era il 2002, mio fratello era nato da poco e la casa era cosparsa di giocattoli, tra cui delle piccole forme tridimensionali. Io amavo giocare con la videocamera di mia mamma, tant’è che fino a qualche anno prima filmavo i miei dinosauri giocattolo per ricreare delle scene di Jurassic Park

Un giorno presi la videocamera, la appoggiai a terra e filmai qualche cubo e piramide dentro un piccolo contenitore. Fermai la registrazione e tolsi un cubetto colorato, per poi premere nuovamente “rec”. Fu come se avessi intuito quello che poi si confermò andando a riguardare la registrazione: il cubetto colorato era scomparso, come per magia. Questa “magia” provocò in me il seguente sillogismo: “questa cosa è stupenda, voglio fare un film!”.

Quali sono stati i tuoi primissimi esperimenti e come sono andati? Sei stato sostenuto e seguito da qualcuno o completamente autodidatta?

Ho girato il primo cortometraggio quando ero alle medie, naturalmente un horror. Iniziai a girarlo con la videocamera di mia mamma, in VHS. Mi ricordo che dopo il primo giorno di riprese, tornai a casa per rivedere il girato e stavo per scoppiare a piangere dalla disperazione: era tutto da buttare! Fu in quel momento che concepii il concetto di montaggio e post-produzione in senso lato. In maniera molto naif, pensavo di poter girare il film esattamente come lo avrei visto, ovvero in ordine cronologico: una follia insomma.

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Il montaggio però presupponeva un altro tipo di mezzo: una videocamera digitale. Per me quello fu il regalo della vita. Così con la mia nuova videocamera digitale e delle riviste che allora trovavo in edicola, cominciai a “gattonare” nel mondo del montaggio, grazie al supporto dell’unico PC che avevamo in casa, che ogni volta che tentavo di esportare qualsiasi filmato mi implorava di smetterla. Un anno esatto dopo la prima (fallimentare) giornata di riprese ricominciai a girare il primo cortometraggio che riuscii, dopo tre mesi di lavoro, a proiettare in classe durante un’ora “buca”. Da quel momento, non ho mai smesso di scrivere e girare piccoli film, con il solo obiettivo di organizzare proiezioni nei piccoli cinema locali aperti al pubblico.

Autodidatta sì, con in archivio una montagna di errori ed esperienze che mi hanno insegnato più di qualunque altra cosa. Ci fu un libro che mi accompagnò mentre tentavo i primi esperimenti, il cui titolo era abbastanza esplicativo: Come girare un film.

Hai sempre avuto lo stesso team di riferimento per le tue produzioni o è cambiato nel tempo?

Ho avuto la fortuna di aver incontrato amici che mi hanno sempre supportato in questa passione, mettendosi in gioco anche sopportando condizioni abbastanza estreme: sveglie all’alba nel weekend, freddo polare quando “dai che è l’unico giorno in cui possiamo fare questa scena”, caldo torrido di agosto. Ma noi dovevamo girare un corto in costumi del XVII secolo, quindi si sudava, ma si faceva.

Negli anni delle medie e del liceo, tutti corti e lunghi che ho girato hanno avuto tra i protagonisti gli amici di una vita, i compagni di scuola, quei pazzi che a volte sono stati più pazzi di me ad assecondarmi. Poi durante l’università, ho conosciuto alcune persone che condividevano la stessa passione nel mettere in scena qualcosa di unico, raccontare una bella storia, costruendo le fondamenta per quello che ora si chiama Toast Film: un gruppo di amici che condividono lo stesso entusiasmo e sensibilità artistica nel realizzare cortometraggi.

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Nelle tue produzioni cerchi di lasciare una tua “firma”, un tratto distintivo? C’è una sorta di fil rouge tra un corto e l’altro?

Credo che il fil rouge sia inevitabilmente la storia che vorrei raccontare. La fase più complicata personalmente è proprio quella precede addirittura la pre-produzione, ovvero la concezione di un’idea, di uno stimolo visivo o narrativo che porti alla nascita di un plot. Sono tanto (troppo) selettivo e autocritico, tant’è che prima di decidere che quella che ho sotto gli occhi o in testa è la storia giusta passa davvero troppo tempo, solo perché non sono mai convinto che la prima idea sia quella giusta. L’unico modo che ho trovato per aggirare questo ostacolo creativo è partecipare – insieme agli amici di Toast Film di cui sopra – a contest cinematografici a tempo in cui si è chiamati a pensare, girare e montare un cortometraggio in 48 ore, rispettando alcuni parametri obbligatori.

Personalmente, amo inserire in una storia qualcosa di imprevisto e inaspettato, un plot twist che non deve essere necessariamente un modo per chiudere la storia, ma un modo per arricchire il contenuto. Cerco di farlo quando posso nelle produzioni personali, così come amo creare atmosfere più cupe che solari, per una piccola passione che ho per il genere thriller e alcune sfumature dell’horror. Il film che avrei voluto scrivere e dirigere? The Others.

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Parliamo dei temi messi in scena di volta in volta: quanto sono influenzati dai concorsi a cui hai partecipato, e quanto invece sono dettati da un’esigenza creativa ed espressiva personale?

Ho iniziato a partecipare ai concorsi “a tempo” nel 2016. Solitamente, ogni edizione ha un tema generale da rispettare e dei parametri obbligatori più tecnici, come una battuta, un oggetto di scena o una location. Nonostante temi e parametri siano sempre diversi, è evidente che ci sia una minimo comune denominatore tra i cortometraggi realizzati negli ultimi anni. Le tematiche affrontate partono sempre da un’estremizzazione di un concetto presente nella nostra società oppure esasperano la tecnologia o il mondo dei social network, come perno attorno al quale ruota la storia. Queste tematiche non sono influenzate dai concorsi, ma emergono dopo ore di brain storming con il gruppo Toast Film. Possiamo dire che sia una nostra esigenza espressiva che ci accomuna e ci trova d’accordo sull’approfondire tematiche simili.

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C’è stato un momento in cui hai sentito dentro di te una crescita, un cambiamento, nelle tue produzioni, o le consideri figlie di singoli momenti nel tempo senza necessariamente individuarvi un percorso in ascesa?

Sicuramente faccio tesoro di ogni esperienza sul set come fattore di apprendimento e crescita personale e professionale. Credo che un momento in cui ho sentito uno “stacco” tra tutto quello che avevo fatto prima e quello che stavo facendo in quel momento è stato quando mi sono trovato a dirigere un set nel vero senso della parola.

Non ero più io da solo con la mia videocamera, a spostare una luce, ad alzare il treppiede o a mettere a fuoco l’inquadratura, ma c’erano persone con ciascuna il proprio ruolo in questa orchestra senza strumenti musicali. Io dovevo far sì che tutto funzionasse in armonia e lì ho sentito di aver fatto un passo in avanti importante, senza trascurare però la dimensione di gioco da dove tutto ciò nasce per me.

Il momento migliore e quello peggiore nella tua carriera: quali sono e che insegnamento hai tratto da entrambi?

Il momento che ricordo con più gioia è stata la proiezione di uno dei lungometraggi che ho realizzato quando ero al liceo, presso un cinema di Forlì. Il fatto che, quasi due anni dopo la concezione di quella storia, di notti passati a scriverla e di mesi di riprese con tutti gli imprevisti del caso, quella sera ci fossero centinaia di persone lì per vedere il risultato di tutti i tuoi sforzi ha un valore incommensurabile, Mi ha dimostrato che non basta credere in qualcosa per ottenere un risultato, devi lavorare e impegnarti davvero, ma il lavoro sarà bellissimo.

Il momento peggiore è abbastanza recente: all’ultimo contest a tempo a cui abbiamo partecipato come Toast Film abbiamo realizzato un cortometraggio dal titolo Ridens. Ero ed eravamo convinti del valore del prodotto, ma la notizia di non essere stati ammessi alla selezione finale ci ha dato uno schiaffo abbastanza forte al morale. Non voglio peccare di presunzione nel pensare che il nostro prodotto meritasse la finale, ma questo risultato è stato per tutti una grande delusione. L’insegnamento qui è abbastanza banale, ovvero che ciò che piace a te non è detto che piaccia ad altri. Questo ci servirà sicuramente come stimolo per tentare di percorrere strade diverse, nuove e inesplorate per quanto riguarda le tematiche affrontate nei corti e i modi di raccontarle.

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Invece qualche retroscena divertente del tuo percorso?

Urca, ce ne sono troppi! Giusto per elencarne alcuni: stavamo girando una scena del corto La procedura in mezzo a una strada di campagna e ci hanno raggiunto i Carabinieri a cui abbiamo ovviamente mostrato che la pistola che avevamo era un giocattolo. Durante le riprese de La resa dei conti dovevamo cucinare un cotechino per esigenze sceniche, ma la casa in cui eravamo non aveva un forno, così lo abbiamo cotto al microonde, per poi cenare con quello nel cuore della notte una volta terminate le riprese (era molto buono).

Oppure durante le riprese di Onlife abbiamo rischiato l’ipossia causata dalla necessità di oscurare tutte le finestre della casa in cui eravamo, solo che l’unico modo per farlo era usare sacchi di plastica neri (quelli per la spazzatura), che oltre alla luce non facevano entrare nemmeno l’aria. È successo qualcosa anche di spiacevole: durante le riprese di Area Cinquantuno sono stato derubato di parte dell’attrezzatura.

A quanti concorsi hai partecipato finora e quali i premi ottenuti? Hai sempre e solo lavorato epartecipato a concorsi italiani o anche internazionali?

Ho partecipato principalmente a concorsi internazionali su suolo italiano come il Sedicicorto International Film Festival ottenendo un primo premio del pubblico (2018), il Montecatini International Film Festival, il Varese International Film Festival, il Sesto Senso Film Festival di Pescara. All’estero ho partecipato al Meet International Film Festival di Plymouth in Inghilterra, vincendo il secondo premio.

Ho partecipato a numerose edizioni del 50e100 ore Torino ottenendo qualche riconoscimento come due secondi posti (2016, 2017), Miglior Regia (2016, 2019), Miglior Produzione (2017), e Miglior Montaggio (2017) e due volte al BZ48H di Bolzano, vincendo il Premio Rai Alto Adige (2019).

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Hai qualche progetto in corso al momento, o il cantiere è fermo?

Sicuramente qualche progetto in cantiere c’è, ma aspetto il prossimo DPCM per procedere.

Cosa consiglieresti a chi vorrebbe intraprendere il tuo stesso percorso?

Il percorso accademico è sicuramente importante per avviare una carriera professionale, ma quello che può insegnarti una lezione frontale o un libro te lo insegna anche meglio l’esperienza di prendere in mano una videocamera e premere rec. Oggi i mezzi tecnologici sono davvero alla portata di tutti e non bisogna pensare che la qualità del mezzo limiti le potenzialità di espressione. Si possono fare film bellissimi col cellulare e film bruttissimi con una cinepresa, quindi il mio consiglio è quello di mettersi in gioco con quello che si ha in mano e buttarsi nella giungla. Per tutto il resto c’è YouTube.

Se abbiamo aperto chiedendoti come sei arrivato fin qui, concludiamo chiudendo il cerchio: dove vorresti arrivare?

Vorrei andare a fare un viaggio. Scherzi a parte, vorrei tornare a fare un lungometraggio come facevo quando andavo al liceo. Ora sicuramente lo farei con una consapevolezza diversa e una maggiore crescita professionale.

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Se siete interessati a scoprire di più su come si gira un corto, vi consigliamo la lettura del libro Fare un corto. Ovvero l’arte di arraggiarsi nello scrivere, trovare i soldi, produrre e girare.

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