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Venezia, viaggio dentro il Mose: “budello” di acciaio e cemento sotto il mare

Nov 13, 2019

Questo perché ho paura di sfiorare alcunché o che dal mio corpo scivoli via qualcosa, anche solo la piccola porzione di un fazzoletto di carta. Temo l’errore fatale, ovvero che un gesto da nulla provochi una reazione esorbitante. Di innescare l’errore, di creare chissà quale danno dalle catastrofiche conseguenze. Naturalmente non può accadere nulla. È solo la fantasia di chi si agita dentro una tecnologia sofisticata e per questo misteriosa. Dopo tutto qui si tratta di fermare il mare, di salvare Venezia. Costi quel che costi.

Costi quel che costi: una storia esemplare.

Tra il febbraio del 2013 e il giugno del 2014, a piú di vent’anni da Tangentopoli, una serie di inchieste e di arresti ha qui ribaltato i vertici della politica regionale, azzerato giunte, riportato in un’aula di tribunale l’impresa italiana. Ha in fondo detto, a colpi di ordinanze, che sí sono passati vent’anni, che sí credevamo di aver imparato la lezione, che sí la prima Repubblica era incatenata all’inchiostro dei libri, ma di fatto corruttori eravamo e corruttori siamo rimasti. E non solo nell’offensiva superficialità o stupida scaltrezza di allungare qualche banconota. La sveglia? La seconda Tangentopoli, l’inchiesta, anzi le inchieste che hanno portato il codice penale dentro il Mose.

Qui, dentro un budello di cemento in mezzo al mare comincia pertanto il tempo delle domande e della ricerca. Mose, dunque il gigante, Mose la salvezza, Mose l’inganno. Macchina sí scientificamente prodigiosa, ma a quale prezzo? Mose che sta per Modulo sperimentale elettromeccanico. All’inizio, cioè nel 1975, il ministero dei Lavori pubblici lanciò un appalto che era anche un concorso internazionale e si misero all’opera separatamente sei ricercatori italiani e un olandese: dopo, quando cercarono di mettere insieme tutte le diverse proposte, nacque quello che fu chiamato “progettone”. Successivamente l’idea divenne prototipo, ed esattamente il prototipo di una paratoia in scala reale, realmente utilizzata tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta per eseguire prove e simulazione, il progettone fu il Mose, un acronimo certo, ma anche il riecheggiamento del biblico Mosè che divise le acque del Mar Rosso per salvare il popolo ebraico in fuga dall’Egitto.

Mose che sta per sistema. Il sistema che avrebbe dovuto realizzare la piú grande opera infrastrutturale d’Italia (qualcuno dice d’Europa) e invece di fatto ha prodotto il manuale della “Perfetta corruzione”. E questa non è solo una storia veneta né tanto meno solo un simbolo. Sarebbe cioè riduttivo definire quello che qui è accaduto un simbolo del malaffare italico. Qui si è piuttosto consumata una codificazione: la messa a protocollo di un modello di gestione economica degli appalti pubblici che invece di creare ha sottratto, che invece di produrre efficienza ha generato clientelismo. Un modello che ha finora drenato oltre 6,2 miliardi, un terzo dei 18,7 miliardi spesi dallo Stato per le opere di salvaguardia della laguna dal 1984, oltre il triplo dei due inizialmente ipotizzati, con una progressione vertiginosa1. Ma l’aspetto drammatico è che negli anni ogni previsione, certo, ma pure ogni consuntivo sono stati smentiti e quindi aggiornati. Questo vuol dire che contro ogni ragionevolezza ci siamo impelagati nella realizzazione di un’opera di cui non conosciamo il costo finale. Per non parlare del fatto che al costo finale dovremo poi aggiungere le spese per la manutenzione. E anche su questo aspetto non c’è alcuna chiarezza.

Sul treno che da Milano Centrale mi ha portato a Venezia Mestre per raggiungere il cantiere di Treporti ho riletto alcuni passaggi di un libro in cui viene ben ricostruito quanto è accaduto solo un paio di anni fa, ovvero «il terremoto giudiziario che ha travolto il quarto presidente del Veneto», preso «dentro fino al collo il Magistrato delle acque, la Corte dei Conti, il Cipe, i servizi segreti, uomini della polizia, della Guardia di Finanza, strutture dei ministeri del Tesoro, delle Infrastrutture, dell’Ambiente» e sfiorato «la Presidenza del Consiglio». In particolare mi sono segnata questa frase: «Lo scandalo Mose – scrive Mazzaro – non è uno scandalo veneto anche se l’acqua alta da fermare è a Venezia. La catena delle collusioni porta a Roma. Investe l’apparato dello Stato, personaggi con ruoli di governo, decisivi nel finanziare uno dei piú grossi centri di spesa pubblica del Paese. Le dimensioni e la gravità superano quelle dell’inchiesta sull’Expo di Milano».

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