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Manovra fondata su deficit e nuove entrate: la spending review (quasi) scompare dai radar del governo

Ott 19, 2019

MILANO – Il Documento Programmatico di Bilancio 2020 (DPB) conferma sostanzialmente il quadro macroeconomico previsivo contenuto nella Nota di aggiornamento al DEF 2019 (NADEF) di due settimane fa. La crescita è prevista allo 0,6 per cento del Pil per il 2020, in aumento rispetto allo 0,1 del 2019. Anche il dato dell’inflazione, misurata con il deflatore del Pil, è invariato rispetto alla NADEF, allo 0,9 per cento nel 2019 e all’1,3 per cento nel 2020; va tuttavia osservato che nel primo semestre di quest’anno, la crescita del deflatore del PIL è risultata pari allo 0,5 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: sembra quindi difficile che quest’anno si raggiunga il tasso previsto, il che potrebbe portare a un più basso tasso di crescita del Pil nominale e quindi a un più alto rapporto tra debito pubblico e Pil.

Per quanto riguarda l’indebitamento netto (il “deficit”), il DPB riporta una riduzione rispetto al quadro tendenziale della NADEF per l’anno 2020: dall’1,4 per cento del Pil, il deficit scende all’1,3 per cento. La ragione di questa diminuzione proviene da un gettito inatteso di 1,5 miliardi derivante da un maggior versamento ricevuto in settembre dai contribuenti soggetti agli Indici Sintetici di Affidabilità Fiscale (ISA, simili ai vecchi studi di settore) e da altri soggetti che applicano il regime forfettario agevolato.[1]

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Tale maggior versamento è considerato avere un effetto permanente sul livello delle entrate. Inoltre, essendoci stati dei rallentamenti nell’introduzione di questo nuovo sistema, i versamenti per il 2019 sono stati rimodulati e verranno registrati nel 2020. Da qui maggiori entrate per 3 miliardi nel 2020, che fanno scendere il deficit tendenziale all’1,3 per cento. Il deficit programmatico invece non diminuisce rispetto alla NADEF (resta al 2,2 per cento): i 3 miliardi trasferiti al 2020 sono stati infatti utilizzati per contribuire alla revisione verso il basso (da oltre 7,2 miliardi a 3,2 miliardi) del gettito previsto dalla lotta all’evasione fiscale (la previsione iniziale era stata considerata da quasi tutti i commentatori come troppo ottimistica). Alla revisione ha anche contribuito qualche altra misura di piccolo importo per circa un miliardo.

Gli andamenti dei conti pubblici nel 2020

Dall’analisi degli obiettivi programmatici per il 2020 e il preconsuntivo 2019 di Tavola 1 (ripresa da Tabella III.1-9 a pagina 25 del DPB) emerge che:

  • L’obiettivo di deficit per il 2020 è invariato rispetto al preconsuntivo 2019 al 2,2 per cento del Pil. Ciò significa che, dal punto di vista macroeconomico, la manovra è sostanzialmente neutrale: lo stato immette nell’economia in termini netti e rispetto al Pil lo stesso ammontare di risorse. Essa è espansiva se valutata rispetto al tendenziale comprensivo dell’aumento dell’Iva, ma – ciò che conta per l’effetto della politica di bilancio sulla crescita – è neutrale rispetto all’anno precedente.[2]
Manovra fondata su deficit e nuove entrate: la spending review (quasi) scompare dai radar del governo
  • Rispetto al tendenziale, la pressione fiscale scende sensibilmente, passando dal 42,7 al 42. Questo è giustificato in larga misura dalla sterilizzazione completa delle clausole IVA che vale circa 23 miliardi (1,3 punti di Pil). Rispetto al 2019, quando la pressione fiscale era invece pari al 41,9 per cento del Pil, lo scenario programmatico prevede un lieve aumento su base annua (pari allo 0,1 per cento del Pil). Nel dettaglio, senza considerare la sterilizzazione delle clausole IVA, il nuovo governo individua misure che aumentano la pressione fiscale per un ammontare di circa 11 miliardi (Tavola 2) che, al netto della riduzione del cuneo fiscale (unica misura che incide positivamente sulla riduzione della pressione), si attestano ad 8 miliardi (circa lo 0,4 per cento del Pil). Perché, quindi, la pressione fiscale non aumenta dello 0,4 per cento del Pil, ma solo dello 0,1? La ragione è dovuta al fatto che le misure varate nelle ultime manovre avrebbero portato, senza contare le clausole di salvaguardia, minori tasse per il 2020 rispetto al 2019 per circa lo 0,3 per cento del Pil.
Manovra fondata su deficit e nuove entrate: la spending review (quasi) scompare dai radar del governo
  • La spesa complessiva rimane pressoché invariata, ma aumenta dello 0,1 per cento del Pil la spesa primaria a causa degli aumenti di spesa decisi con la legge di bilancio 2019, mentre si riduce dello stesso ammontare la spesa per interessi, in conseguenza della recente diminuzione dei tassi di interesse sui titoli di stato.
  • Tenendo conto di arrotondamenti vari, l’avanzo primario (la differenza tra entrate e spesa al netto degli interessi) scende all’1,1 per cento del Pil, il valore più basso dal 2011.


Manovra da 30 miliardi, il confronto con il tendenziale

La manovra complessiva per il 2020 vale circa 30 miliardi (Tavola 3), di cui 16 in deficit rispetto al quadro tendenziale. Il governo ha sottolineato che oltre metà della manovra è in deficit, quasi a voler enfatizzare che “non si erano messe le mani in tasca agli italiani”. Occorre però sottolineare che il deficit tendenziale già rifletteva l’effetto sul 2020 della discesa dei tassi di interesse negli ultimi mesi e, soprattutto, delle misure prese dal governo precedente nel luglio scorso con la legge di assestamento del bilancio dello stato, misure rese necessarie per evitare il possibile inizio di una procedura di infrazione delle regole europee. Rispetto al deficit incluso nel quadro programmatico presentato in aprile nel Programma di Stabilità (il DEF), l’ultimo inviato alla Commissione Europea prima del DPB, l’aumento del deficit è molto limitato (dal 2,1 per cento al 2,2 per cento). In sostanza, quindi, si è riusciti a mantenere il deficit sui livelli promessi dal governo precedente, beneficiando anche delle misure di risparmio da questo introdotte a luglio. In questo senso, non c’è stato un rilevante “finanziamento in deficit”, né rispetto ai piani inviati alla Commissione Europea né rispetto al 2019. Ciò detto, per uniformità con le tavole presentate dal governo, commentiamo nel seguito la manovra rispetto al quadro tendenziale.

Manovra fondata su deficit e nuove entrate: la spending review (quasi) scompare dai radar del governo

Sul fronte delle misureespansive:

  • oltre 23 miliardi sono assorbiti dalla disattivazione totale delle clausole IVA per il 2020. Un aumento dell’IVA è invece previsto nell’anno successivo, poiché per il momento il governo intende disattivare solo 10,4 dei 28,8 miliardi di aumento previsto dalla legislazione vigente a partire dal 1 gennaio 2021. Questo comporta clausole di salvaguardia per 18,4 miliardi per il 2021. Anche le clausole di salvaguardia per il 2022 erano previste essere intorno ai 29 miliardi. Dopo la manovra, ne restano circa 25 miliardi.
  • 3 miliardi (che salgono a 5 nel biennio successivo) riguardano la riduzione del cuneo fiscale sui lavoratori dipendenti, con modalità ancora tutte da definire, ma con inizio a luglio 2020 (da qui il minor costo previsto per il prossimo anno).
  • i restanti 4 miliardi sono la somma di varie “micro-misure” dal costo piuttosto contenuto: riduzione del superticket sanitario, rifinanziamento del Piano Industria 4.0 e delle politiche invariate, misure a sostegno delle famiglie e dei diversamente abili, rilancio degli investimenti nazionali e territoriali.
  • il cosiddetto “cashback” (cioè l’incentivo al pagamento con strumenti tracciabili) comporta una maggiore uscita soltanto a partire dal 2021. L’incentivo potrebbe avere un impatto già da quest’anno, ma il versamento dei rimborsi IVA sarebbe previsto per l’anno prossimo.

Detto che l’aumento del deficit dall’1,3 per cento del tendenziale al 2,2 per cento del programmatico garantisce circa 16 miliardi (come spiegato sopra), le altre coperture rispetto al tendenziale (circa 14 miliardi) sono composte per l’80 per cento da maggiori entrate e soltanto per il 20 per cento da minori spese. Più in dettaglio:

  • la lotta all’evasione fiscale vale circa 3,2 miliardi: un obiettivo di fondamentale importanza in un paese in cui si stima che l’evasione fiscale sia nell’ordine dei 130 miliardi. Il contrasto all’evasione giustifica a nostro avviso il ricorso a strumenti quali ad esempio, il tetto all’uso del contante e incentivi all’uso dei pagamenti elettronici.
  • la revisione delle tax expenditures, di cui molto si è parlato nei mesi scorsi, porta in dote soltanto 200 milioni nel 2020 (e poco di più nel biennio successivo).
  • si interviene ancora una volta sul gioco d’azzardo, aumentando il PREU su slot machine e videolottery (come era già stato fatto lo scorso anno).[3]
  • l’insieme delle misure fiscali “green”, che comprendono la revisione di alcuni sussidi dannosi per l’ambiente, garantisce un maggior gettito per circa 2 miliardi.[4]
  • oltre 3 miliardi sono classificati come “altre maggiori entrate”, di cui non si conosce alcun dettaglio.
  • infine, gli interventi di spending review valgono 2,7 miliardi, poco più dello 0,1 per cento del Pil.

Valutazione della politica di bilancio nel 2020 che emerge dal DPB

In sostanza, il DPB conferma che questa manovra si propone principalmente di sterilizzare le clausole IVA per il 2020. D’altra parte la manovra contiene numerose misure settoriali di impatto molto modesto sui conti. In gran parte queste misure hanno lo scopo di coprire gli aumenti di spesa adottati con la scorsa legge di bilancio, la quale non prevede coperture adeguate e si affida alle clausole IVA per il 2020. Le poche risorse a disposizione vengono utilizzate per aumentare gli investimenti di 700 milioni tra quota nazionale e quota locale, e per ridurre le tasse sui redditi da lavoro. Viene inoltre confermata la poca ambizione in termini di tagli alla spesa pubblica attraverso misure di revisione della spesa.

Non vengono fatti passi avanti nel rafforzamento nei conti pubblici italiani. Il deficit resta invariato sui livelli del 2019 e il debito pubblico è previsto ridursi solo modestamente rispetto al Pil (dal 135,7 al 135,2 per cento nel 2020), nonostante entrate per privatizzazioni per 0,2 per cento del Pil, contro zero negli ultimi 3 anni) e l’aumento dell’inflazione, che, come già notato, resta significativo rispetto alle tendenze correnti.

Un rinvio di un’azione incisiva sui nostri conti pubblici è comprensibile vista l’attuale debole fase congiunturale. Detto questo destano preoccupazione alcune tendenze in atto:

  • l’economia è debole, ma non siamo in recessione e la crescita prevista per il prossimo anno è in linea con la crescita potenziale come stimata nel DPB (0,5 per cento). Certo, la stima della crescita potenziale appare bassa, anche a giudizio delle autorità italiane che seguono in buona parte le procedure di stima fissate a livello europeo, ma si tratta comunque di una crescita positiva.
  • L’avanzo primario, che rappresenta le risorse disponibili per il servizio del debito pubblico, si riduce ulteriormente, scendendo sui livelli minimi del decennio. Anche negli anni successivi l’aumento programmato è modesto (dall’1,1 per cento del Pil nel 2020 all’1,6 per cento del Pil nel 2022). Anche questo governo ha quindi abbandonato, dopo l’innovazione introdotta dal governo precedente, la presentazione di quadri di finanza pubblica in cui, nel giro di tre anni, si raggiungeva un avanzo primario superiore al 3 per cento e si pareggiava il bilancio. Tale pareggio, richiesto dall’articolo 81 della Costituzione, al netto di effetti ciclici, viene rinviato al periodo al di fuori dell’orizzonte di programmazione.
  • La discesa dell’avanzo primario comporta il dover fare maggiore affidamento alla speranza che i tassi di interesse rimangano bassi. Infatti si ipotizza che la spesa per interessi continui a diminuire dal 3,4 per cento del Pil nel 2019 fino al 2,9 per cento nel 2022. Un’inversione di tendenza sarebbe disastrosa per la tenuta dei nostri conti.
  • Si ipotizza che dal 2021 si azzeri la differenza fra dati di cassa e di competenza che per il 2020 pesa sulla crescita del debito per lo 0,3 punti di Pil (tabella III.1-7 del DPB).
  • Prosegue la tendenza a rinviare l’individuazione di adeguate coperture all’anno successivo a quello di bilancio. Tra le altre cose, si sottolinea che diverse misure espansive (il taglio del cuneo fiscale, le misure sugli asili nido, il meccanismo del cashback, il taglio del superticket) hanno pieno effetto solo nel 2021. È così possibile introdurre diverse misure rinviando al futuro l’individuazione di coperture. O meglio, le coperture sono ancora una volta affidate alle clausole di salvaguardia che restano elevate anche per il 2021 e il 2022 (rispettivamente circa 18 e 25 miliardi).

Alla luce di queste evidenze, i conti pubblici italiani restano fragili ed esposti al rischio di crisi qualora dovessero realizzarsi scenari nazionali o internazionali negativi (una recessione, un aumento dei tassi di interesse ecc.). In questa situazione, e pur tenendo conto della limitata crescita prevista per il prossimo anno, un piccolo miglioramento nei conti pubblici sarebbe stato più appropriato per il 2020, con un aggiustamento più incisivo nel biennio seguente.

I mercati finanziari hanno però accolto positivamente gli annunci del governo sulla politica fiscale per i prossimi anni. Si può forse argomentare che dietro i numeri del DPB c’è un governo più credibile, in cui non vi è la tensione che vi era prima fra il MEF, che scriveva documenti ragionevoli, e la maggioranza di governo che, in alcune sue componenti, era attratta da ipotesi del tutto diverse (uscita dall’euro o comunque aumenti del deficit del tutto incompatibili con le regole europee e con la realtà dell’Italia). La forte riduzione dello spread che si è realizzata dalla metà di agosto fa pensare che questo sia un fattore di notevole importanza. Resta il fatto che chi giudicasse le prospettive dell’Italia solo sulla base dei numeri contenuti nei documenti ufficiali stenterebbe a cogliere i segni di una ritrovata consapevolezza della serietà dei rischi che incombono sulla nazione per via della mole ingente del debito pubblico. E l’esperienza del passato, anche recente, ci insegna che mutamenti nell’umore dei mercati finanziari, causati da shock economici o politici, interni o internazionali, possono essere repentini.

Il probabile giudizio della Commissione Europea

Nonostante questi problemi, appare probabile che il giudizio della Commissione possa essere sostanzialmente positivo, vista la flessibilità inclusa nelle regole europee. Potrebbero però arrivare, già nei prossimi giorni, richieste di chiarimenti e inviti ad un’attuazione rigorosa delle misure di contenimento del deficit.

Come noto, il braccio preventivo del Patto di Stabilità e Crescita, per valutare la rilevanza di una possibile violazione della regola del debito (che a sua volta richiederebbe all’Italia di ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil di oltre 3 punti percentuali l’anno), richiede che l’Italia riduca il deficit strutturale (cioè il deficit al netto di effetti ciclici e voci una tantum) di almeno lo 0,5 per cento del PIL ogni anno, fino al raggiungimento dell’obiettivo di medio termine (che per l’Italia è fissato in +0,5 per cento del Pil). In realtà, secondo le valutazioni del MEF, il deficit strutturale peggiora di 0,1 punti. La distanza fra ciò che l’Italia fa e ciò che dovrebbe fare è dunque notevole (0,6 punti di Pil), ma probabilmente non tale da far scattare il giudizio di “deviazione significativa”. La ragione è che una deviazione fino allo 0,5 per cento in un anno non è considerata “significativa” secondo le regole. A ciò si aggiunge la richiesta dell’Italia di una ulteriore flessibilità, pari a 0,2 per cento, a fronte dei previsti investimenti contro il dissesto idrogeologico e per la messa in sicurezza del territorio, rispetto al rischio sismico, e della rete stradale, in seguito al crollo del ponte Morandi.

Una possibile approvazione da parte della Commissione, anche se non scontata, non rifletterebbe una diversità di trattamento di questo governo rispetto al precedente. Anche se il deficit previsto per il 2020 (2,2 per cento del Pil), è solo di poco più basso di quello che il governo gialloverde aveva incluso della legge di bilancio inviata in Parlamento un anno fa (2,4 per cento), ci sono due importanti differenze. La prima è che l’anno scorso il deficit era previsto aumentare rapidamente (dall’1,8 per cento previsto per il 2018 al 2,4 per cento), con una chiara deviazione dalle regole europee che ne prevedono la riduzione. Secondo, il deficit era previsto aumentare nonostante un tasso di crescita dell’economia (1,5 per cento) ampiamente superiore alle stime di crescita potenziale dell’Italia. Conseguentemente l’aumento del deficit corretto per il ciclo economico era di quasi un punto percentuale, il che poneva lo scostamento ben al di là di quello che sulla base delle regole europee poteva essere considerato una deviazione non significativa. Insomma, le regole europee contengono flessibilità, ma non tanto quanto sarebbe stata necessaria per approvare il bilancio del governo gialloverde.

* L’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, diretto da Carlo Cottarelli, promuove, attraverso analisi, ricerca e comunicazione, una migliore gestione della finanza pubblica e una maggiore comprensione dei conti pubblici nel nostro paese.


[2] Una parte delle risorse immesse attraverso il deficit pubblico, in particolare il pagamento di interessi a non residenti (intorno a un terzo del totale), fluisce all’estero, ma la variazione di questa parte rispetto al 2019 dovrebbe risultare modesta.

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