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Caso Cucchi, giustizia e verità finalmente allineate

Nov 14, 2019

Ci sono voluti dieci anni. Un tempo infinito. Ma ora, come hanno detto Ilaria Cucchi e Rita, la sorella e la madre, Stefano può davvero riposare in pace. Perché la giustizia penale si ricongiunge alla verità dei fatti. E ne riallinea la sequenza e le responsabilità nella loro drammatica semplicità. Confusa, negata, manipolata, dal cinismo di chi riteneva che lo Stato non potesse né dovesse processare se stesso. Nello spazio di un pomeriggio, due diverse sentenze – quella della Corte di Assise di fronte alla quale erano imputati i carabinieri responsabili del pestaggio di Stefano e quella della Corte di assise di appello, che giudicava della colpa dei medici dell’ospedale Pertini, dove Stefano visse la sua agonia nei giorni successivi all’arresto – battezzano per la prima volta la morte di Stefano con la parola che la definisce.

Omicidio.

Risultò omicida, ancorché preterintenzionale (al di là dell’intenzione nell’esito) il pestaggio che Stefano subì nella caserma Casilina la notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Fu omicida, nella sua inescusabile negligenza, il cinismo con cui i medici del Pertini lasciarono che un ragazzo di trent’anni si spegnesse tra atroci tormenti in una stanza di ospedale con le sbarre alla porta (“corsie protette”, si chiamano. “Protette”).


Stefano era un “drogato di merda” e come a tutti i “drogati di merda” fu riservato il destino che tocca agli ultimi. I drogati di merda prendono le botte in caserma e non parlano. I drogati di merda vengono lasciati contorcersi negli spasmi prodotti da un catetere che non drena perché se la sono cercata. Perché sono “oppositivi”. Rompono i coglioni.

Ebbene, oggi, due Corti di assise hanno riaffermato il principio che non esiste una giustizia dei garantiti e una degli esclusi. Lo Stato ne esce più forte. E ne escono più forti anche le migliaia di donne e di uomini che indossano un’uniforme dell’Arma dei carabinieri. Come quello che, dopo la lettura del dispositivo, si è chinato per baciare la mano di Ilaria che lasciava l’aula.

Non è una genuflessione. E’ un atto di riconciliazione.

Sarà utile ricordarlo. Per gli altri Cucchi d’Italia. E sarà utile ricordarlo quando un altro giudice – è questione di settimane – comincerà il processo che dovrà giudicare le responsabilità di chi, in questi dieci anni, ha congiurato perché una sera come questa non arrivasse mai.

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